Assi di bastoni
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Andrea ci guida attraverso le sensazioni che turbinano attorno al mondo dell'hockey con l'avvicinarsi dei playoff. Si combatterà, senza esclusione di colpi, per guadagnarsi un posto al turno successivo e prolungare eccitazione ed emozioni, se possibile, fino alle gare di finale.
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Il 22 febbraio 1980, la squadra maschile di hockey degli Stati Uniti sconfisse l'Unione Sovietica, quattro volte vincitrice della medaglia d'oro, nel girone delle medaglie dei XIII Giochi Olimpici Invernali di Lake Placid, New York. Il futuro biancorosso Mark Pavelich è stato uno di loro. Ce lo raccontano le parole dei suoi compagni di squadra a Bolzano, cucite insieme in una trama di ricordi dalla sensibilità di Andra Scolfaro. Non preoccupatevi se vi sembra lungo e quanto tempo vi impegnerà: ne vale la pena.
L’asfalto è mosso da innumerevoli curve. L’autista è lucido ed attento.
Ha gli occhi sulla tormentata strada di montagna e le orecchie accarezzate dalle morbide note di una chitarra.
Il chiarore di una struggente luna piena si riflette tutt’attorno, agevolando la sua guida.
Il pullman è sulla via del ritorno. Ed i passeggeri riposano profondamente, dopo aver speso molto.
In una delle loro innumerevoli battaglie della stagione.
C’è solo un uomo che ha lo sguardo rivolto verso quella luna quasi abbagliante.
Mentre la guarda, mastica con calma le strofe di “Blowin’ in the wind”.
“How many roads must a man walk down
Before you call him a man?
Yes, 'n' how many seas must a white dove sail
Before she sleeps in the sand?
Yes, 'n' how many times must the cannon balls fly
Before they're forever banned?
The answer, my friend, is blowin' in the wind,
The answer is blowin' in the wind”…
“Quante strade deve percorrere un uomo
prima di essere chiamato uomo?
E quanti mari deve superare una colomba bianca
prima che si addormenti sulla spiaggia?
E per quanto tempo dovranno volare le palle di cannone
prima che vengano bandite per sempre?
la risposta, amico mio, se ne va nel vento,
la risposta se ne va nel vento”… ➡️ https://www.youtube.com/watch?v=MMFj8uDubsE
L’uomo scandisce le parole dell’ultima strofa con infinita dolcezza, chinando piano piano il capo. Fino a permettere ai suoi riccioli ribelli di lambire il suo amato strumento.
Questo vero e proprio inno alla pace, scritto dal leggendario Menestrello di Duluth, Bob Dylan, trovò spazio in tempi non sospetti nell’Lp “The Freewheelin' Bob Dylan”, capolavoro di oltre 60 anni fa.
Come l’amatissimo Dylan, anche il nostro appassionato chitarrista veniva dal Minnesota.
Terra di confine, immersa in una natura ruvida e rigogliosa. Costellata da oltre diecimila laghi. Dove il popolo, radioso ma riservato, ama nascondersi. Per rigenerarsi nei suoi day off.
All’inseguimento della stessa pace che Dylan contribuì a mantenere, con la sua ispirazione.
Il pullman è arrivato oramai a destinazione e l’uomo ha già riposto la sua chitarra nella custodia.
Con un gesto che gli è oramai abituale, scarica velocemente i suoi effetti personali dalla pancia del automezzo e, senza dire una parola, si congeda dal resto della squadra, con un cenno della mano.
La ricostruzione di questo episodio, corroborata da un pizzico di doverosa fantasia, è stata possibile grazie ai ricordi ed agli aneddoti raccolti tra ex compagni di quella squadra. Che, a cavallo tra il 1987 ed il 1988, conquistò il suo decimo scudetto. Quello della stella. Uno dei prestigiosi simboli della discendenza, cucito sulle casacche biancorosse dell’Hockey Club Bolzano.
L’uomo con la chitarra? Vi chiederete.
Altri non era se non il grandissimo Mark Pavelich.
“Sul pullman, Mark era sempre seduto davanti a me - ci rivela Jimmy Boni, uno dei quattro componenti del pacchetto difensivo di quel Bolzano, assieme a Gino Pasqualotto, Robert Oberrauch e Norbert Gasser -. Amava suonare la sua chitarra. Ed amava ovviamente Bob Dylan.
Era un uomo umile, molto tranquillo. Che stava sempre sulle sue”.
A dare sostanza a questo ricordo di Boni, giungono in soccorso le fotografie pubblicate in quella stagione dalla stampa locale. Specialmente quelle che immortalarono i giocatori nei momenti liberi. Non vi è alcuna traccia di Mark Pavelich. Obbligato dal protocollo a mettersi in posa, solamente in occasione delle foto ufficiali.
“È stato un compagno di squadra incredibile - prosegue Jimmy Boni nel suo racconto - probabilmente il miglior giocatore two way (quando le qualità difensive eguagliano quelle offensive, nda) mai apparso in Italia. Un giocatore con uno stile di gioco unico, che ho amato molto. Perché lui era davvero speciale, un grande”.
Nato il 28 febbraio del 1958 ad Eveleth, in territorio Dakota, i nativi americani che prosperarono lungo le rive del Lago Superiore, Mark Thomas Pavelich ereditò da alcuni suoi avi le sue ancestrali origini indiane. Che manifestò fino in tenera età. Con una condotta inequivocabile.
Fin da bambino, infatti, a Mark piacque trascorrere intere giornate nel bosco. Imparando anche a muoversi in canoa, per raggiungere gli specchi d’acqua più tranquilli, dove poter pescare.
Da adolescente, il contatto con l’hockey su ghiaccio fu una folgorazione per lui. Come per milioni di altri ragazzi, d’altronde, in Nord America.
Dopo essersi fatto le ossa nelle giovanili della franchigia universitaria di casa, i Minnesota Bulldogs Duluth, Pavelich decise di abbandonare gli studi quando nel 1979 lo staff della Nazionale mise gli occhi su di lui.
A volerlo con sè, sul pancone degli Stati Uniti, un altro compatriota: Herb Brooks.
Vero e proprio sergente di ferro di Saint Paul, la città gemella di Minneapolis.
Il ruvido coach del Minnesota selezionò per le Olimpiadi di Lake Placid del 1980 un distinto gruppo di giocatori. Poche stelle ed un pacchetto di gregari disposti a tutto. E lo plasmò a modo suo, privilegiando il bastone alla carota.
Qualche esempio?
Dopo un'amichevole preolimpica, giocata svogliatamente e persa in malo modo, obbligò la sua squadra a sostenere una pesantissima seduta supplementare.
Al buio, e senza rifiatare un solo istante.
Due ore d’inferno.
Qualche giocatore collassò letteralmente sul ghiaccio, altri supplicarono il coach di poter espiare quella punizione in altro modo.
Herb Brooks non volle sentir ragioni. E non si fece impietosire da nulla e da nessuno.
In questo modo fece subito capire ai suoi giocatori che certe leggerezze non le avrebbe ammesse.
Così facendo, riuscì a creare lo spogliatoio perfetto ed a forgiare la squadra di cuori impavidi, che aveva elaborato nella sua testa.
Presupposti di quella trionfale galoppata, verso la medaglia d'oro olimpica di Lake Placid.
Che, a tutti gli effetti, verrà per sempre ricordato come il celeberrimo "Miracle on Ice".
“I russi, i russi, gli americani...”.
Lucio Dalla scrisse la sua meravigliosa “Futura” dopo un viaggio a Berlino.
Salì su un taxi che lo condusse lungo il Muro, fermandosi solo al Check Point Charlie, il passaggio blindato. Tra Berlino Est e Berlino Ovest.
Sorvegliato da russi. Ed americani.
Un dettaglio, che suggestionò la creatività del grande cantautore bolognese.
Una ruspante similitudine, utile solo per riportarci al titanico confronto di Lake Placid.
Quello che oppose Stati Uniti d’America ed Unione Sovietica.
Primo match del girone finale del torneo olimpico.
Uno dei confronti che hanno contribuito a delineare la storia contemporanea dell’hockey su ghiaccio.
Esattamente 45 anni fa...
22 febbraio 1980: Jim Craig vs. Vladislav Tretiak. Mike Eruzione vs. Sergej Makarov. Herb Brooks vs. Viktor Tikhonov.
1° tempo: Vladimir Krutov (0-1); Buzz Schneider (1-1); Sergej Makarov (1-2); Mark Johnson (2-2) in extremis, al 19’59”!
Ad inizio 2° tempo Vladimir Myshkin subentrò a Vladislav Tretiak. Un cambio che quasi costò i gradi, ed il ruolo di allenatore, al severissimo Viktor Tikhonov. Myshkin non sfigurò ed Aleksandr Malcev infilò Jim Craig (2-3).
Nel 3° tempo: il pareggio di Mark Johnson (3-3); infine, su assist illuminante di Mark Pavelich, il gol decisivo di Mike Eruzione (4-3). Difeso, fino alla sirena finale, da un immenso Jim Craig.
Al Michaels, telecronista per la rete televisiva ABC, commentò così gli ultimi secondi del match: “Undici secondi, vi restano dieci secondi, stanno contando alla rovescia. Morrow passa a Silk, restano cinque secondi di gioco! Credete nei miracoli? Sì!”.
Il termine “miracolo” venne plasmato intorno all’evento in quel preciso istante.
Mark Pavelich, al pari di tutti i suoi compagni, vennero portati in trionfo. Il coro che salì imperioso dalle tribune: “U.S.A. U.S.A.”, in voga ancora oggi, venne esportato a tutti i grandi avvenimenti dello sport a stelle e strisce.
Ma non era ancora finita.
Servì un ultimo sforzo, contro la Finlandia, in lotta per la medaglia di bronzo.
Sotto per 2-1, dopo il memorabile discorso alla squadra di Herb Brooks prima dell’ultimo periodo, gli Stati Uniti tornarono sul ghiaccio. A coronare il loro sogno.
E quello di una nazione intera.
Phil Verchota, Rob McClanahan e Mark Johnson firmarono rimonta e sorpasso.
E così, sdoganarono l’impresa.
Pav, come veniva chiamato Mark nel suo ambiente, motore instancabile di quella squadra miracolosa, impedì ai migliori giocatori del mondo di esprimere il loro reale potenziale. Limitandoli grazie alla forza, l’intelligenza e l’abnegazione. In un modo che pochi altri giocatori sono poi riusciti ad esprimere in futuro. In quello che viene identificato idealmente come: l’hockey moderno.
“Per le sue caratteristiche - conferma Gianni Spoletti, backup di Mike Zanier nella Stagione della Stella per l’Armata Biancorossa - Mark avrebbe potuto giocare tranquillamente nell’attuale NHL. Ed essere ancora tra i migliori”.
Una teoria rinforzata da un aneddoto.
“In ogni allenamento Pavelich ebbe cura di ogni minimo dettaglio - continua Spoletti -. Su questo fu sempre rigoroso. Alla fine di ogni seduta era solito chiedere a me o a Mike di fermarci per altri 15 minuti di pratica supplementare: “uno contro zero”.
In cosa consisteva?
“Gli lanciavamo un centinaio di dischi, dietro la porta. Mark partiva a tutta dall’angolo, puntando il nostro slot dritto per dritto, con la sua proverbiale andatura a pendolo. Anche per noi portieri quei momenti furono importanti. Per studiare l’imprevedibilità dell’attaccante. A Mark invece, quei cento dischi quotidiani, servirono per migliorare quello che fu uno dei suoi cavalli di battaglia”.
Il celeberrimo gesto tecnico, iniziato rigorosamente dietro la gabbia, sul quale il portiere avversario finiva immancabilmente ipnotizzato dalle finte di Pav. Lo specchio della porta si spalancava, permettendo a Mark di collocare agevolmente il disco in rete.
“In quelle stagioni a Bolzano - ama ancora ricordare Gianni Spoletti - Mark fu un compagno di squadra esemplare. Un ragazzo di poche parole, ma dal cuore grande. Si rese sempre disponibile ad aiutare i compagni. Specialmente i più giovani. Conscio com’era di guadagnare molto di più”.
Le gerarchie nello spogliatoio, invece?
“Lì, il padrone incontrastato fu ovviamente Kent Nilsson. Ovunque andasse Magic Man, fu inevitabile. Mark, invece, provò certamente ammirazione per lo svedese ma preferì sempre mantenere un profilo basso. Poche parole e tantissimo lavoro. Sempre in soccorso dei compagni di squadra. Avere due fenomeni del genere, tra di noi, fu realmente incredibile”.
Nel tempo libero avete condiviso qualche hobby particolare?
“Certo, andavamo a pescare lungo l’Adige! - rivela l’ex portiere biancorosso -. Mi aggregai spesso con Jimmy Boni, vero professionista della pesca a mosca, alle uscite programmate da Pav.
Erano momenti davvero divertenti e rilassanti. Ogni tanto Mark arrivò di primo mattino in compagnia della figlia Tarja, nel trasportino appoggiato sulle spalle”.
Come, prego?
“Si deve abituare anche lei all’aria frizzante del mattino”, era solito ripetere. Mark era fatto così. Ma molti di noi lo portano ancora oggi nel cuore”.
In fin dei conti, anche Mark Thomas Pavelich da bambino preferì le escursioni nelle foreste che lambivano le sponde del Lago Superiore ai giochetti fatti in cortile con i suoi coetanei. Come un vero cucciolo di indiano Dakota.
Un vero e proprio lago di ricordi, invece, è quello che esonda dal telefono quando chiediamo a Maurizio “Niki” Scudier di aprire il cassetto degli aneddoti di quella memorabile stagione ‘87-‘88.
“L’Hockey Club Bolzano - parte di botto Scudier - chiese chi fosse disponibile ad andare a Malpensa a prendere Mike Zanier e Mark Pavelich. Andammo io, Robert Oberrauch ed Ivo Maurer.
Nilsson Zanier Pavelich
Sul portiere nulla da dire, ma quando ci trovammo Mark per la prima volta di fronte, rimanemmo allibiti. Jeans bucati, casacca a stelle e strisce di una taglia enorme, Timberland usate come pantofole, con le caviglie scoperte. In una mano la chitarra. Nell’altra la canna da pesca”.
Da quel momento, però, iniziò un momento nella vita di “Niki”. Che non potrà mai scordare.
“Quella stagione - ammette - non fu bella. Di più. Sotto ogni punto di vista. Con Kent Nilsson e Mark Pavelich al nostro fianco crescemmo tutti moltissimo. Lo svedese fuori dal ghiaccio era più compassato. Mark invece era il classico spirito libero. Di poche parole. Ma con battute ironiche davvero affilate”.
Come se stesse ancora vivendo una delle indimenticate vigilie dei big-match contro Merano o Varese di quella stagione, Maurizio Scudier snocciola le fantastiche linee d’attacco di quell’anno.
“Pavelich agiva da centro - ricorda - come sue ali ruotavano Martin Pavlu, Hubert Gasser ed il sottoscritto. Nilsson invece aveva preferibilmente Lucio Topatigh e Bruno Baseotto ai fianchi. E a volte mi alternai anch’io. Nelle situazioni di powerplay, il Bolzano prendeva letteralmente il volo. Offrendo spettacolo puro alle tribune del Palaghiaccio di via Roma”.
Quando scattava la superiorità, The Magic Man, lo svedese dai guanti bianchi, lasciava che fossero i compagni ad impostare l’azione. Restando immobile lungo la balaustra, a cavalcioni della linea blu, sulla destra del portiere avversario. Appostato come un predatore.
Spesso era proprio Mark Pavelich ad uscire di zona con il disco. Ed a quel punto l’intesa con Nilsson scattava immediatamente. Scarico sullo svedese e fuga a presidiare il suo amato angolo. A quel punto Nilsson entrava nel terzo offensivo a sinistra della gabbia. Avendo due opzioni. O serviva l’altra ala (Pavlu o Topatigh, alla bisogna) oppure restituiva il puck a Pavelich. Il pacchetto avversario del penalty killing ondeggiava a destra e Mark fulmineamente restituiva il disco a Nilsson, già in attesa dell’assist a sinistra, con la sua Christian pronta ad esplodere il tiro.
La traiettoria era spessissimo indirizzata all’incrocio dei pali.
E per il portiere avversario c’era davvero poco da fare...
“Vederli giocare insieme era davvero favoloso - incalza Maurizio Scudier -. Pavelich in quella stagione perse non più di dieci ingaggi. E non si fece mai intimidire da nessuno”.
Qui, si apre - rigorosamente - un capitolo a parte. Scudier inizia a raccontarlo.
“Stagione ‘88-‘89, Asiago ingaggia Perry John Turnbull. Un fighter con oltre 600 partite in NHL. Fisico scultoreo, mani di pietra e carattere alquanto suscettibile. Giochiamo contro i veneti e Turnbull si presenta con un crosscheck pesantissimo su di me. Seguito da un’altra carica folle su Norbert Gasser. Che finisce a testa in giù sul ghiaccio, dentro la nostra gabbia. Dal pancone si alza Mark Pavelich, insegue Turnbull e quando se lo trova davanti gli piazza la stecca al collo. I due si dicono qualcosa mentre Mark si porta Perry John in giro per la pista, con la sua Christian in tubo di alluminio (il primo giocatore in Europa ad usarla fu proprio Pav, nda) puntata sulla giugulare. Incredibilmente Perry John Turnbull non reagì e tutti noi non potemmo credere a ciò che stavamo vedendo”.
Solo l’anno seguente, quando Maurizio Scudier e Robert Oberrauch atterrarono a Minneapolis, per godere dell’ospitalità di Mark Pavelich e trascorrere qualche settimana a casa sua proprio a Duluth, in Minnesota, i due compagni di squadra ebbero modo di comprendere la pregressa ostilità esistente tra Mark e Perry John Turnbull.
“I locali dell’aeroporto - incalza nuovamente Maurizio Scudier - erano totalmente ricoperti da immagini inneggianti proprio al Miracle on Ice. Ben sapendolo, Mark ci venne a prendere mezzo camuffato, cappello ed occhiali da sole, con un gigantesco pick-up. A bordo del quale c’erano due canoe. Quando arrivammo a casa sua, Mark ci svelò l’arcano. Tirò fuori una cassetta Vhs in cui erano registrate le immagini di un datato New York Rangers-Saint Louis Blues. Durante il quale Turnbull caricò Pavelich con l’usuale violenza. L’azione fallosa scatenò l’inferno tra le due squadre. Quando Mark si riprese dal crosscheck, entrò come una furia nel pancone dei Blues. Prendendo Turnbull per le orecchie e riportandolo sul ghiaccio. Pronto a consumare la sua vendetta. Furono separati a fatica e solo allora capimmo cosa accadde realmente, anni prima, tra di loro”.
Anche Maurizio Scudier, come fatto in precedenza da Jimmy Boni e Gianni Spoletti, non può non rammentare la bellezza e la squisitezza del ragazzo altruista e generoso, che fu Mark Pavelich.
Il mattino seguente la lunga chiacchierata con “Niki” Scudier, arriva dalla East Coast degli States la mail di un personaggio che, ancora oggi, reputo straordinario.
Che ha ricevuto dalla sua carriera un’abbondante contropartita a tutti i sacrifici fatti per emergere. E dalla vita, o per meglio dire: dal destino, una determinante “seconda opportunità”.
Uno dei centri più forti e completi che mai siano arrivati in Italia. Capace anche di generare un legame affettivo inscindibile con la nostra amata Hockeytown: Gaetano Orlando.
Dopo ben 16 anni trascorsi a curare lo scouting dei New Jersey Devils, da tre stagioni Gates lavora con le stesse mansioni per una delle franchigie di New York.
Non gli amati Rangers di Pav. Ma gli Islanders.
“Scrivo in italiano, Andrea. Anche se non è dei migliori!”
Gates riesce a strappare un sorriso. Poi, quando inizia a sfogliare il suo album dei ricordi, le sue parole si fanno davvero toccanti.
“Pav era un uomo diverso.
Per me, non si è mai preoccupato di ciò che gli altri pensavano di lui.
Ha sempre camminato al suo ritmo. O, come si dice in inglese: "marched to his own drummer"!
Quando sono arrivato in Italia, a Merano, ed ho visto la rosa del Bolzano, sapevo gia che Pav sarebbe stato il giocatore chiave della squadra.
Nilsson era uno spettacolo. Però Mark era sempre il cervello ed il motore.
Era un giocatore sottovalutato. Ma a lui andava bene così.
Sempre discreto nel suo lavoro. E SEMPRE costante.
Quando ho visto Mark davvero felice era quando aveva vicino sua figlia Tarja o suonava la chitarra. Da solo o con Paolo Casciaro. Con il cigarello in bocca.
E quando parlava della pesca, c'era sempre un sorriso...
Queste cose erano le sue vere passioni.
Secondo me, Pav non era entusiasta di essere un idolo per il suo pubblico.
L'hockey per lui non era la cosa più importante.
Era un uomo semplice, e piuttosto chiuso, con quelli che non lo conoscevano.
Gates”.
Cos’altro aggiungere?
L’ultima testimonianza, sulla figura del compianto protagonista del “Miracle on Ice”, giunge quasi dall’altro capo del mondo. Dalla West Coast. E più precisamente: Vancouver.
Ron Chipperfield, il primo capitano della storia degli Edmonton Oilers in NHL ed il primo “NHLer” a giungere in Italia, nel settembre del 1981, per giocare con l’Hockey Club Bolzano (creando anche un legame indissolubile tra la sua esistenza e la nostra città) ci regala qualche minuto del suo tempo. Giusto per regalarci il suo personale ricordo di Mark.
“Nell’estate del 1987 - ci ricorda l’ex giocatore e poi manager dell’Hockey Club Bolzano - la società biancorossa mi diede disponibilità molto più ampie del solito per gestire il mercato. Trattare con Kent Nilsson e Mark Pavelich non fu affatto un problema. Mark, in particolare, mi chiese solo qualche giorno per parlare con la famiglia ed organizzare la loro partenza per l’Italia”.
Chipperfield rivela altri dettagli delle due transazioni.
“Dopo l’ingaggio della stella svedese, dotato di un gioco molto offensivo, dovetti equilibrare questa caratteristica con un centro che fosse invece in grado di fare senza problemi le due fasi. E Mark fu la perfezione, in questo. In passato i New York Rangers poterono giocare tutto campo grazie alle straordinarie attitudini di Mark Pavelich. Ogni allenatore vorrebbe uno come lui in squadra”.
Il discorso scivola poi sull’inevitabile paragone tra i due fenomeni. Ron si presta volentieri.
“I loro caratteri erano estremamente diversi - ricorda -. Mentre Kent era gioviale ed in allenamento, come in partita, si divertiva realmente, Mark invece era più taciturno e sul ghiaccio sgobbava come un matto. Entrambi però sono sempre stati un esempio molto fortificante per il resto della squadra. Perché estremamente disciplinati”.
L’ultimariflessione di Ron Chipperfield, inevitabilmente la più toccante, chiude la nostra cordiale chiamata intercontinentale.
“Porterò sempre dentro di me un ricordo bellissimo di Mark. Uomo di poche parole ma di grande cuore. Amava i suoi compagni di squadra, specialmente i più giovani. Un ragazzo veramente d’oro. Che ha chiuso tristemente la sua vita”.
Il 5 maggio 2021, attraverso un social, riuscimmo a contattare Jean Pavelich Gevik, la sorella di Mark. Nostro intento:confezionare una bella intervista.
Allo scopo di far emergere la figura ed il ricordo del suo caro.
Jean non potè acconsentire. E questa fu la sua risposta alla richiesta.
“Ciao Andrea, sembra un bellissimo omaggio a mio fratello. Ma, ho già un accordo. Per lo stesso motivo. E non posso creare eventuali conflitti. Ci vorrà molto tempo prima che possa sciogliere questo vincolo. Ma conserverò i vostri contatti e vi aiuterò. Grazie per l’opportunità di mantenere viva l’eredità di Mark. Un caro saluto, Jean”.
Dedicato alla sua memoria ed alla sua figura, il 13 marzo dello scorso anno un gruppo di leggende della NHL, guidato dall’ex capitano dei New York Rangers, Barry Beck (“Un grande uomo ed un grande campione - ricorda proprio Jean -. Che sul ghiaccio guardò sempre le spalle a Mark...”) ha dato ufficialmente vita a Sauk Centre, località del Minnesota dove Pav trascorse gli ultimi anni della sua esistenza, all’organizzazione no profit denominata: “The Ranch - Teammates for Life”, la cui struttura è una sorta di memorial. Che ospita persone bisognose e le sostiene attraverso un cameratismo condiviso, costruito sulle stesse passioni di Mark: gli animali, la pesca, la musica e la vita all’aria aperta.
Prima di lasciarci, Pavelich contribuì con diverse donazioni alla realizzazione dell’opera. E chiese ai suoi familiari di fare altrettanto.
Sul patio di “The Ranch” sono state erette due statue.
Una raffigurante Mark. L’altra, un marine. Poste una davanti all’altra.
Insieme, reggono la bandiera degli Stati Uniti d’America.
Un’immagine che vuole ricordare l’importanza della fratellanza e della cooperazione.
“I russi, i russi, gli americani. No lacrime, non fermarti fino a domani...”.
Mark Thomas Pavelich, per un’ironia del destino, è mancato proprio il giorno in cui nacque Lucio Dalla, il 4 marzo 2020.
Nel suo testamento, moltissimo dello stesso amore per il prossimo.
Quello che riempì gran parte della sua miracolosa vita.
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L’ultimo pit-stop della regular season nella ICE Hockey League. Quello decisivo.
Dove è ancora possibile correggere le strategie.
Per ottenere il piazzamento più soddisfacente possibile. A salvare i programmi, gli investimenti e la stagione.
Leggi tutto: Assi di bastoni 22 - I bolidi della ICE all’ultimo pit-stop prima dei playoff
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Assi di Bastoni #20: Le leggende della Spengler Cup e la beffa della Siberia tempo di lettura 15 minuti
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Quando i veri campioni hanno le spalle al muro, e la schiena piegata sotto il peso delle responsabilità, sanno di avere una sola possibilità di uscire vivi e vegeti da quell’impasse.
Stringersi saldamente tra di loro, fino a formare un sol uomo, cercare il contorno dell’anima negli occhi di ciascun compagno, infine dar fondo a tutte le proprie residue energie, fisiche e nervose.
“La differenza che distingue un hockeista da un vero giocatore di hockey”, come ama ricordare un grande interprete biancorosso del passato.
Come Gaetes Orlando...
Ci eravamo lasciati dopo lo spettacolare derby col Pusteria, quello del tanto decantato sold out al Palaonda, con la sobria convinzione che l’Armata Biancorossa avesse imboccato con l’abbrivio ideale il lunghissimo rush che porta al traguardo volante di fine stagione regolare.
Cadendo in errore.
Questa edizione della Ice Hockey League si sta rivelando molto più mossa ed equilibrata delle precedenti. Con un livellamento verso l’alto. Figlio sia del ritmo incessante imposto dal calendario che degli accorgimenti adottati dai singoli staff tecnici, delle tredici franchigie in competizione tra loro, protèsi a conservare quanta più batteria possibile. In vista del gran finale.
Fehérvár e Bolzano, il duopolio sul quale è vissuta la prima parte della stagione, nel loro duello ciclopico per la conquista della Terra di Mezzo, sono ora minacciate da vicino da due concorrenti che non hanno bisogno di particolari presentazioni: KAC e Salzburgo.
Dopo essersi liberate dal giogo supplementare della Champions Hockey League, le due corazzate austriache hanno focalizzato i loro sonar sulle fuggitive ed ora, soprattutto le Rotjacken, sono in asse con la loro scia.
Dopo l’importante 4-1 speso ad ammansire l’orda di lupi gialloneri, le Volpi biancorosse hanno compiuto due consecutivi viaggi a vuoto.
Il primo a Graz, quello successivo a Villach.
Al Merkur Eisstadion i biancorossi hanno letteralmente gettato il primo periodo alle ortiche. Scendendo sul ghiaccio con la stessa vérve di un’immersione tra il pubblico di un Family Day al Palaonda. Lasciando un vantaggio impossibile da trascurare nelle mani di Harry Lange, l’head coach di Graz. Il quale, non si è fatto pregare più di tanto. Amministrandolo in modo che i biancorossi non potessero più nuocere.
A poco o nulla, nel primo intervallo, è servita la scossa inferta alla squadra da un Glen Hanlon alquanto perplesso. La cui sola attenuante era rappresentata dalla contemporanea assenza per infortunio di Adam Helewka e Brad McClure.
Appena rimessi i pattini sul ghiaccio, la squadra ha saputo offrire una tardiva reazione d’orgoglio. Togliendo il respiro ai 99ers ed accorciando con Dustin Gazley. Ma nell’ultimo periodo, nonostante un’iniziale superiorità numerica di quattro minuti effettivi per un 2’+2’ inflitti giustamente a Frank Hora, il Bolzano ha dovuto nuovamente ringraziare Sam se ha potuto lottare per il pareggio fino all’ultimo decimo di secondo prima della sirena finale.
La lezione subita in Stiria non è stata capitalizzata dai biancorossi in Carinzia, nel turno successivo, alla Stadthalle di Villach.
Ad un ottimo primo periodo, chiuso meritatamente in vantaggio grazie alla staffilata dalla blu di un redivivo Cole Hults, sono seguiti venti minuti di sofferenza per il Bolzano. A causa di improvvide amnesie difensive. Al cospetto della linea più pericolosa della Lega. Quella composta da Max Rebernig, Kevin Hancock e John Hughes.
Sotto di due reti, in avvio di terzo periodo i biancorossi hanno spinto immediatamente sull’acceleratore. Ma sono stati subito costretti a rivedere le loro strategie. A causa della loro stessa indisciplina.
Quattro penalità minori, diluite in quella che avrebbe potuto essere la frazione del riscatto, sono state decisive invece perché al Villach venissero conferiti i tre preziosi punti in palio lungo le rive del Wörthersee.
Con le spalle al muro, tornando al nostro incipit, i Foxes si sono ritrovati al Palaonda per preparare una delle partite più delicate della loro regular season. Il secondo match casalingo, terzo complessivo della stagione, contro i Red Bull. L’unica franchigia in grado di averli sempre superati, nei match precedenti.
Ma coach Hanlon non doveva fare altro.
Il condottiero di Vancouver ha scacciato dalla sua mente ogni perplessità. Che sarebbe stata avventata nella circostanza.
A doppia mandata, ha chiuso in un cassetto della memoria anche i dubbi emersi a Graz. Quelli sulla effettiva tenuta mentale del suo collettivo.
Un potenziale tormento che l’uomo della Provvidenza ha scacciato con una delle dosi di fiducia che ogni tecnico che si rispetti deve avere nel suo equipaggiamento.
Quella che si ripone sia nei propri mezzi. Che in quelli della squadra.
Ed ha lasciato che fossero i suoi ragazzi a trovare dentro sè stessi le giuste motivazioni alla vigilia della Madre di tutte le Battaglie. Quella che viene benedetta anche dal board della Ice Hockey League. Perché rappresenta uno di quei momenti in cui gli interessi del grande bacino di utenti ed appassionati di questo lembo d’Europa si focalizzano all’unisono. E generano i grandi numeri dello share della passione. Quelli che tengono in piedi anche organizzazioni come la ICE.
Foxes Bolzano - Red Bull Salzburgo è e rimane LA Partita.
Il resto è solo contorno. A cingere il boccone più saporito.
Hockeytown queste dinamiche le conosce bene. Ci è abituata da quasi un secolo.
In ogni occasione non ha mai avuto timori reverenziali. Affrontando con coraggio e saggezza anche i confronti fuori dalla sua portata.
È in questo modo che il suo DNA vincente si è modellato nel tempo. Strutturandosi gradualmente.
Io non perdo mai... O vinco, o imparo.
Dalla Notte dei Tempi.
Proprio quella in cui è contenuto anche il seguente, straordinario racconto...
15 gennaio 1933
Nella sua seconda apparizione ufficiale in serie A, il Bolzano-Renon (denominazione d’origine controllata che, in quell’epoca, unì il luogo di provenienza della squadra con la struttura sull’altipiano che la ospitò abitualmente) si giocò l’accesso alla semifinale ad Ortisei.
Proprio contro i gardenesi.
Il vincitore avrebbe trovato l’Hockey Club Milano ad attenderlo.
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Guido Menestrina,Ernst Ebner, Robert Lux, Siegfried Menestrina e Hans Lux
Ortisei - Bolzano-Renon 0-5
Ortisei: R. Schmalzl, Noflaner, Walpoth, Moroder, F. Schmalzl, Prinoth, Obletter.
Bolzano-Renon: Ruedl, Mech, Drescher, G. Menestrina, Ebner, Lux, Gamper, Moser.
Reti: Mech 2, G. Menestrina 2, autorete R. Schmalzl.
-
Dopo il match di Ortisei, i biancorossi ebbero a disposizione solamente tre giorni per preparare la proibitiva trasferta a Milano. La scelta del mezzo di locomozione ricadde sul treno. Un viaggio che si rivelò allucinante.
I posti a sedere, su quel maledetto convoglio per la Stazione Garibaldi, erano tutti occupati.
Menestrina e Lux provarono a mettersi seduti a terra, schiena contro schiena. Ebner e Mech si sdraiarono sui borsoni dei materiali. Addirittura ci fu chi tentò di infilarsi sulle cappelliere sopra ai finestrini. Condizioni estreme. Impossibili da mantenere per tutto il viaggio.
Qualcuno, più sobriamente, se lo sciroppò totalmente in piedi. Da Bolzano a Milano.
Al loro arrivo alla Stazione Garibaldi, in clamoroso ritardo, i Nostri Eroi riuscirono a raggiungere l’impianto di via Piranesi dopo una corsa assassina.
Si cambiarono in quattro e quattr’otto. E si ritrovarono catapultati sul ghiaccio, ad incrociar le stecche contro le mitologiche maglie nere dell’Hockey Club Milano.
Senza riposare dopo quell’odissea. E senza rifocillarsi.
Quella notte finì malissimo.
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H.C. Milano - Bolzano-Renon 11-0 (2-0, 5-0, 4-0)
H.C. Milano: Gerosa, Trovati, Baroni, Venosta, Scotti, Dionisi, Medri, Mussi, De Mazzeri.
Bolzano-Renon: Ruedl, Mech, Menestrina, Ebner, H.Lux, Moser, Gamper, Drescher.
Reti: Venosta e Mussi nel primo tempo; 2 Trovati, 2 Scotti e Mussi nel secondo; 3 Venosta e Scotti nel terzo.
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All’alba, i giocatori bolzanini salirono le scalette del treno rapido che li avrebbe riportati a casa.
Quelli milanesi furono invece costretti a scendere nuovamente sul ghiaccio di Porta Vittoria, per affrontare in amichevole i maestri dei Massachusetts Rangers, la prima squadra statunitense a giocare in Italia. Un evento di livello assoluto.
Un ottimo allenamento (finito 8-0 per loro). Dopo il quale, i bostoniani raggiunsero Praga, per partecipare al Campionato del Mondo. Indossando la maglia degli Stati Uniti d’America.
Altro evento che entrò nella Leggenda dell’Hockey.
Perché, per la prima volta nella storia, il Canada (rappresentato dai Toronto Nationals) mancò la conquista del titolo mondiale. Battuto in finale per 2-1, proprio dai sorprendenti Rangers.
Ma questa è un’altra storia...
Le sfide impossibili alle milanesi negli anni Trenta, gli highlanders che resero immortali i duelli con il Cortina per un trentennio, i derby infuocati degli anni Ottanta, l’asse milanese ed il Volga Express degli anni Novanta, l’ingresso nel nuovo Millennio affidato ai cavallini ed infine l’intuizione del Dottore che ci ha proiettati al presente. Con un occhio costantemente proiettato verso il futuro.
Foxes - Red Bull è probabilmente la sintesi perfetta di tutte le colossali rivalità vissute da Hockeytown. A cavallo tra i due secoli.
Ed il nuovo capitolo vissuto mercoledì scorso è stato recepito dalle quattromila anime raccoltesi in via Galvani come un atto decisivo dei playoff. Tanto è stato intenso, emozionante, equilibrato. E combattuto.
I biancorossi hanno saputo scendere sul ghiaccio come un sol uomo. E hanno lottato per la vittoria, in ogni decimo di secondo del match. Lungo ogni centimetro di ghiaccio presente al PalaOnda. Al bando ogni amnesia, ogni passaggio a vuoto. Il target era il dominio sul puck. Peggio per l’avversario, se ne fosse stato malauguratamente in possesso.
Una certa teoria sostiene che questo sia l’atteggiamento migliore da tenere quando dall’altra parte della linea rossa ci sono proprio i salisburghesi di Oliver David.
Massima aggressività nel terzo difensivo, supremazia territoriale in zona neutra, dinamismo perpetuo ed accentuata imprevedibilità negli assalti portati ad Atte Tolvanen.
Il resto lo sbrigherà il solito monumentale Sam .
Salzburgo ha dovuto accettare i termini della sfida. E lo spettacolo è stato decisamente all’altezza delle aspettative. Riportando l’Armata Biancorossa ai fasti dove i suoi supporters vorrebbero sempre vederla.
Dustin Gazley deve alzare bandiera bianca a causa di un serio e dolorosissimo infortunio alla mano. Pascal Brunner entra sullo scacchiere al suo posto. A lottare assieme alla squadra anche per lui. Le perdite sono una conseguenza della battaglia. E questa volta a pagare dazio è il Bolzano.
Con il passare dei minuti sono Tolvanen ed a vestire i panni degli attori protagonisti e non vi era alcun dubbio in merito. Ma l’occasione capitale del primo periodo arriva sulla spatola di Adam Helewka. Il portiere dei Red Bull ci mette le ali, salvando il risultato.
Anche il secondo atto della sfida è vissuto sulla falsariga dei primi venti minuti. Le squadre pattinano tantissimo e quando davanti a Lewington si spalanca la porta della panca puniti è il Bolzano ad avere la chance. Gli special team salisburghesi sono quanto di meglio ha da offrire in materia questa Lega. Ed il tabellone resta ancorato sullo 0-0.
Il prezzo del biglietto viene poi ulteriormente ammortizzato dalla ruvida parentesi pugilistica offerta da Matt Bradley e Troy Bourke. Matt si aggancia a due mani alla spalliera dell’avversario. E quando vede luce tra il suo destro e la mascella di Troy, gli piazza il colpo del kappaò.
Anche le balaustre del vecchio caro PalaOnda si prendono la loro fetta di gloria nello spettacolo. Dopo aver catapultato Mario Hubera testa in giù, in corrispondenza dei pattini di un divertito Brad McClure, avvolgono nelle loro spire anche il malcapitato Philipp Wimmer. Bloccato nel plexiglas dopo una carica chiusagli in faccia da Michele Marchetti.
È esattamente il tipo di battaglia che i quattromila avevano pregustato oltrepassando i tornelli delle casse. Ed il meglio doveva ancora venire.
L’ultimo periodo non delude le aspettative. Forse solo quelle di Scott Valentine. Quando viene colpito in modo sporco dal solito Peter Hochkofler.
L’indisciplina di qualche suo interprete costa cara ai Red Bull.
Salzburgo viene ancora salvata da Tolvanen sul terzo powerplay biancorosso. Ma quando è Lukas Thaler a dare il cambio ad Hochkofler dietro la lavagna, l’incarico di far crollare il fortino austriaco viene affidato a Tony Salinitri, implacabile nello spolverare l’incrocio dei pali alla sinistra del goalie finnico. Un gol meraviglioso. Che fa esplodere finalmente il Palaonda.
Il match si infiamma ancor più. Ma non esiste calore che possa intaccare la glaciale presenza agonistica di Sam , strepitoso nel togliere a Benjamin Nissner una colossale opportunità avuta sotto la Curva dei Figli di Bolzano. L’ovazione rivolta in direzione del Guardiano del Regno è un ulteriore brivido di piacere.
I Foxes beneficiano dell’ultima leggerezza della serata di un Lukas Thaler alquanto falloso. Ma questa volta l’uomo in più non viene sfruttato a dovere dai biancorossi.
Salzburgo toglie Tolvanen per inserire il sesto uomo di movimento. È la mossa della disperazione. Che Matt Bradley stava aspettando per chiudere il match. La precisione balistica del numero 67 è l’ideale timbro sulla pratica. Quella che il Bolzano non era ancora riuscito a chiudere in questa regular season. I primi tre punti della stagione, trovati all’interno delle Lattine di Red Bull.
L’emblematico gesto finale di Sam , al momento di raccogliere il meritato tributo della platea per il suo ennesimo shutout, resterà probabilmente la copertina più bella dell’evento.
La porta ribaltata sul ghiaccio. E quel gesto a voler dire: “Da qui non si passa!” è roba da mandare in visibilio anche le anime meno sensibili.
Con la consapevolezza di aver ritrovato se stessi, proprio nello scontro diretto con Salzburgo, i Foxes sono risaliti sul pullman venerdì scorso. Per raggiungere Klagenfurt.
Quando il torpedone ha accarezzato nuovamente le sponde carinziane del Wörthersee, gli umori del sol uomo erano già in fibrillazione.
Vista la classifica, lo spessore dell’avversario e l’importanza dei tre punti in palio, Kirk Furey e Glen Hanlon avevano una sola raccomandazione da rivolgere ai propri giocatori prima di scendere sul ghiaccio della Heidi Horten Arena: massima prudenza.
Coach Furey, in particolare, sapeva in cuor suo che arrivare ai supplementari poteva essere un’idea accettabile per entrambe. Perché mai come in questa fase del campionato, anche il singolo punto in più in classifica potrebbe generare la più sostanziale delle differenze.
Andare all’overtime contro questo Bolzano, però, è un rischio che bisogna saper calcolare a fondo. Perché, sempre che le statistiche siano ancora la chiave del linguaggio universale dello sport, i biancorossi detengono attualmente il record continentale del saldo vittorie-sconfitte nei prolungamenti: sette vinte e zero perse.
Ad agitare la vigilia, neanche se ne fosse sentita una particolare necessità, ci ha pensato la stessa società ospitante. Prendendo una decisione totalmente impopolare. Ovvero mettere in vendita ai propri sostenitori anche i tagliandi riservati al settore ospite. Una stupidaggine vera e propria. Che non rappresenta purtroppo una novità. Già nella EBEL prima, che nella Ice adesso, questa pratica è ancora usuale. Specialmente nelle piazze più calde. Quelle che non hanno mai nascosto una certa insofferenza nei confronti di tutto ciò che non sia rigorosamente autoctono. Giusto per rendere l’idea. Provate a pensare cosa succederebbe se accadesse al Palaonda?
L’avvio del match, tornando coi piedi sul ghiaccio, è l’esatta coniugazione del verbo con il quale i due tecnici hanno indottrinato i propri giocatori. In zona neutra l’affollamento di uomini è evidente. Nessuna delle due ha intenzione di scoprire troppo il proprio terzo difensivo.
Nel primo periodo Bolzano vede la porta meglio dei padroni di casa. Ma, dall’alto dei suoi 37 anni, Sebastian Dahm sa destreggiarsi nel traffico davanti al suo slot con la stessa eleganza con la quale passeggia lungo il Nyhavn della sua Copenhagen.
Il computo dei tiri della prima frazione è emblematico: 14-7 per i biancorossi. Ma viene totalmente ribaltato nel periodo centrale. Complice una pesante penalità inflitta a Matt Bradley (2’+2’+10’), a causa di un colpo di bastone inferto sui polsi di Nick Petersen, le Rotjacken abbandonano ogni tattica conservativa. Portando l’assalto alla baionetta verso la gabbia di Sam.
I biancorossi resistono annullando la pressione KAC con un penalty killing magistrale. Ed è straordinario il riflesso con il quale ipnotizza Matt Fraser allo scadere dei primi 40’.
Nel terzo periodo il canovaccio della prudenza riappare sul ghiaccio. Le squadre tornano a studiarsi con molta più attenzione. Ed è il Bolzano ad avere le occasioni più nitide. Con Brad McClure prima, Brad Christoffer poi, e soprattutto Chris DiGiacinto quasi allo scadere.
Si entra nel ginepraio dell’overtime. Ciò che coach Furey avrebbe probabilmente voluto evitare, in cuor suo. In questa fase, il Bolzano si dimostra ancora una volta molto più a suo agio di qualsiasi altro avversario. Quando arriva la mano dei penalty, il jolly lo calano i biancorossi con lo specialista Matt Bradley. E Nick Pastujov completa l’album delle brutte figure KAC della serata scivolando come un principiante prima di ingaggiare lo slot di Sam .
La chiusura di una nuova settimana di fuoco per i colori biancorossi era in programma domenica pomeriggio a Linz. La trasferta che le Volpi odiano più di qualsiasi altra. Neanche dovessero mettersi in fila dal dentista per l’estrazione dei denti del giudizio.
I motivi sono noti da oltre un decennio. I supporters delle Black Wings sanno gravare sul collo dell’avversario meglio che in qualsiasi altra piazza della Ice. E questo aspetto genera disagio.
Ambiente ostile, o meno, il sol uomo se ne frega quando è focalizzato sull’importanza della posta in palio. I padroni di casa sono in lotta con Graz e Villach per una poltrona nelle Top Six. Ma i biancorossi devono provare ad accorciare su un Fehérvár più lontano del solito.
Il match è già di per sè complicato sulla scacchiera di Glen Hanlon. Che non può contare su due alfieri di sicuro affidamento. Come il lungodegente Dustin Gazley ed un infortunato eccellente dell’ultimo minuto, Tony Salinitri.
È Rasmus Tirronen a dover evadere nel primo periodo molte più situazioni di imbarazzo rispetto al suo collega. Ma l’occasione più nitida e solare capita sulla spatola di Niklas Würschl proprio allo scadere del primo periodo. Si va al riposo sullo 0-0 ma è evidente che il Bolzano abbia tutta l’intenzione di non lasciarsi abbindolare. Nè dal clima rovente, nè dall’avversario.
Alla ripresa del gioco, infatti, le occasioni fioccano per i biancorossi. Prima Mike Halmo serve l’assist perfetto in direzione di Brad McClure. Molti supporters sono già in piedi davanti alle tivù, pronti ad esultare, ma ancora Tirronen si salva in qualche modo. Poi è Adam Helewka a non avere fortuna su un tiro a colpo sicuro che incoccia la base della porta.
L’equilibrio del match viene rotto solamente dall’episodio estemporaneo. Si era già capito.
È il Linz a fare bingo con Greg Moro, il quale libera dalla blu un tiro di polso che supera di un nulla il gambale esposto da , battuto dopo oltre 180’ di gioco effettivo.
Nel periodo conclusivo il Bolzano getta ancor più lontano il cuore oltre l’ostacolo. Il duello Tirronen-McClure viene vinto ancora una volta dal goalie. Ma l’errore decisivo, purtroppo, lo compie Dylan Di Perna. Ken Ograjensek è bravo a fuggire col disco verso la porta biancorossa ed a servire un cioccolatino in direzione di Luka Maver.
2-0, ma non è finita. Bolzano ha a disposizione un powerplay per gentile concessione di Greg Moro. Le soluzioni non sono ancora dell’efficacia necessaria. Ma a 45 secondi dalla fine Luca Frigo risolve la solita furibonda mischia davanti a Tirronen ed apre uno spiraglio dove anche il pullman biancorosso ci si butta con tutti gli pneumatici.
Gli ultimi secondi ammutoliscono anche il riottoso popolo di Linz e dintorni. Bolzano ha il sesto uomo di movimento sul ghiaccio ed un’occasione clamorosa con Matt Bradley per pareggiare, proprio sulla sirena. Rasmus Tirronen compie però, con la pinza, totalmente proteso verso il palo lontano cercato dall’avversario, la parata della vita.
Linz può tornare a respirare. Ma questo Bolzano mai domo, nella sua Eis Arena, lo ricorderà a lungo, senza alcun dubbio. Soprattutto se i destini delle due squadre dovessero ancora una volta incrociarsi durante i prossimi playoff.
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- Scritto da Giorgio Sclavi
- Categoria: Assi di bastoni
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Un'occasione particolare per aprire la valigia dei ricordi e delle emozioni per raccontare di un amico e di una cara persona, parlando, come sempre, di hockey. Questo è Assi di bastoni 19º episodio 10 minuti di lettura
Leggi tutto: Assi di bastoni #19 - In ricordo di Michele Bolognini - 10 min lettura