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Assi di Bastoni #20: Le leggende della Spengler Cup e la beffa della Siberia   tempo di lettura 15 minuti

2024 Straubing FribourgLa pacchia è finita.

Tra bocce di prosecco e lagrein, tartine e pandori, Una poltrona per due, Spengler Cup ed Ice Hockey League, queste vacanze di Natale sono volate alla stessa velocità di uno schiocco di dita, ma sono state tra le più belle della mia vita.

Trascorse nel più incondizionato relax, assieme a Laura ed ai nostri cari, hanno generato dosi importanti di pace e libertà. Mai godute prima.

L’ultima volta che riuscii a vedere tutti gli incontri della Spengler Cup, l’uomo era appena sbarcato sulla Luna. Le immagini erano in bianco e nero e la volta celeste fungeva da copertura dello stadio. Proprio all’esterno dell’attuale Vaillant Arena, su una delle piste naturali più grandi al mondo.

Le semifinali dello scorso 30 dicembre sono state, a mio avviso, le sfide più appassionanti di questa edizione.

Merito dello Straubing di Tom Pokel. E del Friburgo Gottéron, a trazione svedese.

Capaci di ribaltare Team Canada e Davos.

Quando si sono ritrovati faccia a faccia, in finale, Tigers e Draghi hanno dato vita ad un avvio fiammeggiante. Tre reti in appena 120 secondi. Poi Friburgo se n’è andato in scioltezza. Obbligando la regia televisiva a cercare lo spettacolo tra l’impareggiabile folklore delle tribune.

Come ogni anno, a lungo le telecamere hanno indugiato sul quarantunenne Andres Ambühl, l’ultimo cavaliere della tavola rotonda. Alfiere del nobile stendardo di Davos, fermamente deciso ad estendere, chissà per quanto tempo ancora, una carriera che ha già il sapore della leggenda.Sprunger Mentre        Julien Sprunger sollevava orgogliosamente il trofeo, dall’alto dei suoi 39 anni, sono andato a rovistare nel suo prospetto. Scoprendo un’altra favola. Figlia di un hockey oramai scomparso.

L’attuale capitano bianconero, vera e propria bandiera dei Draghi, ha trascorso tutto l’apprendistato nelle giovanili del Friburgo Gottéron. Scalando le gerarchie un passo alla volta. E finendo per conquistare i gradi di capitano nell’oramai lontano 2014.

Il giovanissimo scudiero che si trasformò in un re.

Come Semola, nella “Spada nella roccia”...

Sono andato poi a ritroso, scorrendo l’albo d’oro della manifestazione. Per fissare i momenti in cui il simbolo del potere venne esibito dalle squadre italiane.

La Carl Spengler Cup, intitolata al noto pneumologo di Davos, a sua volta grande amante della montagna e dello sport, che combattè la tubercolosi e finanziò la nascita del trofeo che porterà per sempre il suo nome, venne sollevata dai Diavoli Rossoneri per tre volte.

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Due volte consecutive, nel ‘34 e nel ‘35, nonostante in quell’epoca gli arbitri avessero sempre un occhio di particolare riguardo per la squadra di casa, e nel ‘50.

Il Milano Inter, invece, non conobbe avversari al pari della sua fama nelle edizioni del ‘53 e del ‘54. Un biennio d’oro, anche per l’hockey nazionale. Costellato, soprattutto, da grandissimi interpreti.Uno di questi sbarcò a Bolzano dall’Ontario, nel pieno dell’autunno del 1953.

Non aveva ancora 20 anni. E probabilmente era inconsapevole di essere prossimo a diventare una delle figure più rilevanti dell’hockey di casa nostra: Carmine Tucci

I suoi avi partirono un giorno dall’Abruzzo, per imbarcarsi su un vapore che gli avrebbe condotti al di là dell’oceano. Erano diretti in Canada, nella Regione dei Grandi Laghi, a Sault Saint Marie, la cittadina collocata esattamente sulla linea di confine tra Canada e Stati Uniti, proprio dove si uniscono le acque del Lago Superiore e del Lago Huron.

 

Carmine ripercorse la rotta dei suoi avi, ma in senso inverso.

 

TucciPer dare un’identità alla sua vita. Con un’ambizione. Diventare un giocatore professionista. Bolzano gli concesse la prima vera opportunità. E gli fece firmare il primo importante contratto di una prestigiosa carriera, trascorsa a dirigere il gioco, sia dalla pista che dalla propria panchina. Durante la quale anche Cortina d’Ampezzo e Brunico furono tappe fondamentali. Vincendo complessivamente la bellezza di cinque scudetti. Che ne hanno fatto uno degli oriundi più titolati che sia mai arrivato nel nostro campionato. Bolzano chiese ed ottenne dalla Federazione l’organizzazione del girone finale, quello che decise le sorti del campionato ‘53-‘54.

Una stagione in cui diversi episodi la resero alquanto turbolenta. 

I Diavoli Rossoneri allestirono una squadra pazzesca. Fortissima in ogni reparto. Senza apparenti punti deboli. E la consegnarono nelle mani del coach, Luigi Bestagini. Con un imperativo. Vincere.

Un portiere giovane ed ambizioso, Ambrogio Abascià.

Una difesa orchestrata dal leggendario

Mario Bedogni, Mario Bedogniscomparso nel 2017 a 94 anni, unico milanese a vincere almeno uno scudetto in tutte e quattro le società meneghine della storia. Ed il solo a vincere la Spengler sia coi Diavoli che col Milano.

Un attacco sfavillante, comandato dal veterano Aldo Federici. E dove imperversarono Ronald Sartor, Pete Roy e Joe De Felice. Un terzetto che oggi ricorda i protagonisti di “Quei bravi ragazzi”, il film culto di Martin Scorsese. Giovani, arroganti e spietati.

Che fossero tre belle “teste calde” coach Bestagini lo capì fin da subito.

Per la precisione, da una delle prime amichevoli precampionato.

Ad Innsbruck.

Quella sera, il pubblico austriaco accolse la squadra italiana come sua abitudine.


Con una selva di epiteti. Dai quali, risaltò quello più consumato tra tutti. 
“Legionäre!”. Accompagnato da cupi ed interminabili ululati.

In pista, i Diavoli Rossoneri non diedero peso a quel comportamento ostile. Surclassando l’avversario. Il quale, si ritrovò sotto di quattro gol. In men che non si dica. Le rimostranze dei tifosi austriaci si fecero sempre più minacciose, fino a sfociare nel misfatto.

Joe De Felice, impegnato nell’aspra contesa del disco con il suo marcatore diretto, venne duramente colpito al volto ed alla schiena dai tifosi austriaci, in un pertugio lungo la balaustra, privo di recinzioni.

Alla vista del suo sangue sul volto, con un gesto fulmineo, Joe scavalcò la balaustra.

Nella mischia si gettarono anche Roy, Sartor ed altri compagni di squadra. Successe il finimondo. Ed un paio di quei supporters ebbero la peggio. Il pubblico si inferocì. E la squadra milanese trovò precipitosamente riparo nel proprio spogliatoio. Passarono lunghi minuti e la situazione quasi degenerò.

Solo l’intervento del console italiano, chiamato in fretta e furia sul posto, tolse d’impaccio i giocatori rossoneri. E fu risolutivo. Gli animi stemperarono gradualmente. E le squadre ripresero il match.

Tornati sul ghiaccio, i Diavoli... si scansarono. Permettendo all’Innsbruck di imporsi per 5-4. Il peggio arrivò più tardi.

Quando la comitiva rossonera salì sul rapido per l’Italia, fu individuata da alcuni gendarmi della polizia ferroviaria. I quali, con buona pace di tutti, si fecero consegnare Joe De Felice.

L’oriundo venne condotto in caserma, dove trascorse la notte in gattabuia. Un ulteriore intervento del console sbloccò nuovamente la situazione. L’indomani, i Diavoli Rossoneri poterono finalmente fare il loro ritorno a Milano.

Al culmine di quella stagione, l’Hockey Club Bolzano venne estromesso dalla lotta per lo scudetto. Proprio al termine del girone di qualificazione.

Zero punti in classifica, addio alla finale - che avrebbe potuto giocare davanti al proprio pubblico - ed al deludente pacchetto di giocatori germanici, composto da Kapferer, Graf, Lödermann ed Hermann.

La partita dell’anno la disputarono - immancabilmente - le due milanesi. Nella tenaglia del gelo della zona Siberia, ai Piani di Bolzano. Dove accadde un fatto davvero insolito. Ancora oggi sospeso tra favola e realtà.

Dopo due tempi, il Milano Inter si trovò avanti per 3-1.

Ronald Sartor, dopo aver raccolto in silenzio l’accorato incoraggiamento di Bestagini alla squadra, uscì anticipatamente dagli spogliatoi. Ma qualche istante dopo, tornò dai compagni per raccontare loro i dettagli di una fantomatica discussione avuta con un avversario:

“Ehi ragazzi, uno del Milano Inter mi ha appena detto: ‘Oramai la partita è nostra. Il mio allenatore mi ha promesso 10.000 lire se riuscirò a segnarvi un gol. Quindi avverti i tuoi compagni e lasciatemi tirare in porta!’.

Io gli ho risposto: ‘E tu vieni a chiedermi questo, per l’equivalente di soli 16 dollari’?

Fu la molla che fece scattare l’orgoglio rossonero. Bestagini non avrebbe saputo fare di meglio.

I Diavoli tornarono in pista, più determinati che mai. E riuscirono nella straordinaria impresa di ribaltare il netto svantaggio, forti anche di un potenziale nettamente superiore. 

Finì 4-3 per loro. Quarto titolo italiano per i rossoneri. Il più emozionante ed insperato.

Difficile stabilire se quanto accaduto a Ronald Sartor, cowboy furlan-canadese, top scorer della serie A degli invincibili Diavoli Rossoneri di quell’anno, sia stato reale o frutto della sua fantasia. Fatto sta che fu determinante.

Se quella partita ebbe un finale del tutto inatteso, fu grazie a lui. Per l’occasione, la stampa rispolverò i caratteri cubitali. 

E quella partita la battezzò in modo appropriato. La “Beffa della Siberia”.


Dalle vicende del secolo scorso, a quelle che animano la Ice Hockey League, il passo è relativamente breve.

Ci eravamo lasciati alla vigilia della doppia sconfitta consecutiva dell’Armata Biancorossa, la prima di questa stagione, caduta per mano di Vienna e Klagenfurt tra la vigilia e Santo Stefano.

Evento che aveva sollevato il solito inopportuno vespaio di polemiche, alimentato inevitabilmente dalla massiccia presenza dei soliti leoni da tastiera. Quelli che operano sentendosi al sicuro, nel torbido dei social. Agendo in modo indisturbato.KAC

Per la prima volta dal 2021, nella bruma sollevata dalle gelide acque del Danubio, a pochi passi dalla Steffl Arena, i biancorossi hanno lasciato a Vienna tre punti che avrebbero potuto fare comodo. Ma che, prima o poi, si potevano comodamente mettere in preventivo vista la lunghissima striscia positiva che li separava dall’ultima battuta d’arresto.

Poi, è sopraggiunta la punizione inferta dalle Rotjacken del KAC. Che hanno addirittura lasciato a secco l'attacco biancorosso, nonostante l’usuale saldo attivo nel computo dei tiri: 34-26. Seguente a quello ben più corposo di Vienna: 38-25.

Trovo che queste statistiche rappresentino un bicchiere mezzo pieno.

Sono la reale e concreta dimostrazione che le Volpi sappiano creare gioco. Portando il vertice della manovra alla finalizzazione. 

Neanche un navigato leone da tastiera sarebbe in grado di ribaltare, con i fatti non con quattro chiacchiere buttate a caso, ciò che non è semplice teoria. Ma un granitico dato di fatto.

Sono sempre più convinto che queste persone siano inopportune nelle loro esternazioni. E che non possano bastare i biglietti acquistati al botteghino per autorizzarli ad infangare il lavoro che questi uomini - assieme al loro staff - stanno conducendo dallo scorso agosto.

La critica è lecita, per l’amore del Cielo. Ma deve essere supportata da un’azione concreta. Non da una reazione cieca e bigotta.

I rumors li cogliamo tutti. Da certa stampa, dall’ambiente vicino alla squadra, dagli addetti ai lavori. Ma anch’essi fanno parte di un percorso. Quello che scorre a nastro lungo tutta la stagione regolare. Quello in cui si testano tattiche e strategie. Dove si cercano gli equilibri di ogni singola linea. Dove, per questi e molti altri validi motivi, si possono perdere partite considerate facili. Come di vincere quelle che potevano invece sembrare chiuse dal pronostico.

La regular season resta e rimarrà sempre un laboratorio a cielo aperto. Un bioritmo in continua oscillazione. Dove solo le squadre di qualità superiore riescono a mantenere i vertici per sei mesi consecutivi. Come nel caso dei Foxes. O del Fehérvár. Le altre, al momento, stanno procedendo a strappi. Qualche esempio?

Il Graz è partito fortissimo. Poi ha avuto un calo vistoso. Ed oggi procede con andatura intermittente.

Linz ha avuto da ottobre a dicembre un periodo straordinario. Condito con 19 vittorie in 23 incontri. Domenica scorsa, invece, ha subìto la quinta sconfitta consecutiva.

Salzburgo godeva dell’attenuante legata alla CHL. Ma, dopo essere uscita pesantemente di scena a Karlstad, ora deve trovare continuità nella Lega. Cosa che non le sta riuscendo. Come dimostrano le pesanti debacle casalinghe contro Vorarlberg e Vienna.

Anche Villach e Lubiana sembrano vagoncini lanciati sulle montagne russe. Che salgono, scendono e risalgono. A seconda delle condizioni di forma, delle circostanze, dei ritmi imposti in allenamento dal coaching staff.

Allo stato attuale, il solo Klagenfurt viaggia con l’acceleratore a fondo scala. Segno inequivocabile di forza ed armonia. Che servirà però esprimere anche da fine febbraio in poi. Troppe variabili, se calcoliamo che siamo “appena” ad inizio anno.

Perché pseudo-tifosi o fanta-allenatori possano arrogarsi il diritto procurato loro dal “sentito dire” per accedere sui social e vomitare addosso agli altri le proprie distorsioni della realtà.

Poi, giusto perché la verità non debba nuocere ma portare consiglio, ci sono anche reali situazioni non ottimali, che scivolano grossolane davanti agli occhi di tutti. Come la condizione di qualche giocatore o la difficoltà oggettiva di particolari situazioni di gioco, vedi il power-play.Christoffer

Ma, a meno che questi fenomeni non abbiano libero accesso e libero arbitrio all’interno dello spogliatoio biancorosso, imparino almeno a rispettare la saggezza del vecchio adagio: What happens in the Locker Room, stays in the Locker Room! Talmente evidente da non aver bisogno di essere tradotto.

Ma torniamo a bomba sulla stagione del Bolzano. E sulle sue ultime prestazioni. In chiusura d’anno vecchio i biancorossi hanno orgogliosamente rialzato la testa.

Brad Christoffer, dopo aver attraversato un periodo un po’ avaro di soddisfazioni personali, ha deciso da solo il Grande Classico del 28 dicembre scorso. Ribaltando all’overtime il 4-3 interno, che stava resistendo a tre minuti dalla fine del tempo regolamentare.

Risultato a cui sono seguite la bella vittoria casalinga contro il Villach e quella esterna ad Innsbruck, maturata grazie alla provvidenziale doppietta dell’ex, Simon Bourque.

Nonostante la limousine biancorossa si sia intraversata al Palaonda contro la solita bestia nera, il Vorarlberg, a causa dell’eccellente prestazione offerta da David Madlener, la manovra di avvicinamento al derby con il Pusteria adottata da coach Hanlon ha dato il risultato che Hockeytown attendeva con trepidazione: la vittoria!

6738

6.738 spettatori, leoni di tastiera compresi, hanno servito il sontuoso sold-out.

Il match non ha certamente tradito le attese. Battaglia doveva essere. E battaglia è stata.

A mio modesto avviso, sono emersi dettagli importanti.

La rivoluzione delle linee, operata dal coach di Vancouver alla vigilia di un match così delicato e denso di ragionevoli aspettative, ha portato a concreti risultati. L’assetto e l’aerodinamica del bolide biancorosso non ne hanno risentito quando i cavalli del motore sono stati sollecitati nel momento del bisogno. Quando il Bolzano si è messo in scia ai pusteresi. Per poi bruciarli allo sprint nel terzo periodo.

Le quattro linee e la profondità del pancone, come rimarcato alla vigilia, pagano quasi sempre. A prescindere dagli interpreti.

Se mi è concessa una citazione in favore del singolo, vorrei sottolineare la prestazione offerta da Chris DiGiacinto, eletto con pieno merito come mvp della serata. Un uomo che sta dimostrando di amare la maglia biancorossa come se stesso. Un aspetto sempre confortante, nel rapporto tra il giocatore ed il suo senso di appartenenza.Pioneers 2

“DiGia Balboa” sta entrando prepotentemente nel cuore dei tifosi. Per quella sana voglia di animosità che sa mettere in ogni circostanza. Per la grinta ed il coraggio che getta sul ghiaccio quando c’è da lottare negli angoli, in campo aperto, davanti allo slot. Senza differenza alcuna.

È un fighter nell’anima. E nella sostanza. Una figura che un po’ mancava al Palaonda. Il classico trascinatore, che non contempla la sconfitta. Ed è capace di stimolare i compagni. Perché diano sempre il 100 per cento delle loro possibilità.

Encomiabile. Poco altro da aggiungere.

Nell’economia del derby, infine, alcuni review hanno agitato la platea.

In particolare, quelli sui gol subiti da Eddie Pasquale.

Dopo aver (volontariamente?) dislocato la gabbia dai suoi supporti.

Con il suo atteggiamento, il nuovo portiere dei pusteresi ha riportato alla memoria alcuni grandi interpreti del passato.

vs HCPJim Corsi, ad esempio.

Il quale, sempre nel momento del bisogno, ricorreva allo spostamento della porta.

Un’astuzia che trasudava esperienza. E che, a volte, qualche beneficio lo procurava.

L’ultima revisione arbitrale, quella servita a verificare la gravità del proditorio gesto di Mikael Frycklund su Brad McClure - fallo apparso inutile ai più - è costata allo svedese ben tre giornate di squalifica.

E chissà quanto lavoro dei fisioterapisti per rimettere in sesto il nostro numero 19. 
Stiamo parlando di hockey. Non certo di ping pong.

Ma è dai tempi in cui lo davano in tivù, in bianco e nero, da quel primo uomo sbarcato sulla Luna, che ho imparato a distinguere la veemenza dalla vigliaccheria.

McClure HCP