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Adoro, nelle notti stellate, uscire sul grande terrazzo di casa. Alzare lo sguardo verso il cielo, prendendo ampie boccate di quell’aria che immagino libera dallo smog. Cercare le costellazioni più facili da individuare e restare lì. Ad osservarle, la testa libera dai pensieri.
Specialmente in estate, proprio sopra di me, il Grande Carro rimane sospeso, nel buio della notte, al suo solito posto. Quasi volesse stare lì ad aspettarmi.
Quel nitido, inconfondibile quadrilatero simmetrico di stelle, l’ho sempre associato alle quattro basi del diamante del baseball. Uno delle discipline sportive che amo di più, nella mia vita.
In fondo, per origine ed estrazione sociale, mazze e bastoni hanno molte similitudini...
Nel vortice di uno di quegli strani scherzi che ogni tanto il destino si diverte a disegnare, proprio nell’immediata vigilia delle World Series tra Los Angeles Dodgers e New York Yankees, martedì scorso è giunta la triste notizia della scomparsa di uno dei più grandi ed amati lanciatori nella storia del baseball: Fernando Valenzuela. El Toro. L’essere sovrannaturale. Perché in possesso, secondo dicerie create ad arte, del terzo occhio. Quello parietale. Come le iguane. Ricevuto in dono dall’Onnipotente, perché sul diamante potesse essere il Migliore. In grado di eliminare i corridori in base. Senza nemmeno voltare le spalle.
Valenzuela arrivò ai primordi degli anni ‘80 proprio a Los Angeles. Da Navojoa, sperduto paesino dello stato messicano di Sonora.
Gli scout dei Dodgers su di lui ebbero un fiuto straordinario. Che lui seppe ricompensare.
Quando Tommaso Lasorda, leggendario manager della franchigia della Città degli Angeli, lo associò al ricevitore Mike Scioscia, fece la sua fortuna. E quella dei Dodgers.
Quella straordinaria batteria, nel 1981 fu artefice del trionfo dei californiani nelle Series contro i New York Yankees.
Fernando e Mike, nonostante fossero poco più che esordienti, affrontarono quell’indimenticabile stagione sfoggiando una personalità totalmente fuori dal comune. E fecero la storia.
43 anni dopo, l’America rivive la stessa sfida galattica. Quella tra le due realtà più amate ed odiate nel baseball. Dodgers vs. Yankees.
Nelle prime due partite, giocate a LA, lo spettacolo è stato forse al di sopra delle più felici aspettative. Gara 1 è stata decisa da una giocata straordinaria di Freddie Freeman. Prima base dei Dodgers. Uno degli sluggers più temuti in Major League.
Al decimo inning Freeman è andato nel box di battuta per affrontare a duello Nestor Cortes, pitcher di NY. Essendo entrambi mancini, i vantaggi si sono annullati. Cortes ha scelto la palla veloce. E totalmente schiacciata sul filo del piatto. Un lancio davvero maligno. Che Freeman ha però mandato in Paradiso. Le basi erano piene. E la sua walk-off lungo quelle stesse basi è sembrata la passerella finale della star sul palcoscenico, al termine di una rappresentazione da sogno.
Un Grand Slam da 4 punti, che ha letteralmente ribaltato gli Yankees.
I disegni del destino, talvolta, combaciano. Ma non hanno, sempre, lo stesso risultato.
Gara 2 infatti è stata dominata da Yoshinobu Yamamoto, superlativo lanciatore dei Dodgers.
Ma Los Angeles, avanti 4-1 fino all’ultimo attacco newyorkese, ha perso la lettura sulla palla. Per troppa confidenza. Proprio nel momento topico del confronto.
Gli Yankees hanno riempito le basi nel nono ed ultimo inning, servendo a mani esperte un altro potenziale Grand Slam. Quelle di Jose Trevino, ricevitore texano, mai decisivo come Freeman ma in grado comunque di sprigionare esplosività nel suo giro di mazza.
Trevino ha cercato di pescare il jolly, cogliendo di sorpresa la batteria nemica. Ma il suo legno è risultato troppo corto. E solo uno dei suoi tre compagni è riuscito a portare il punto a casa.
Sul 2-0 Dodgers, la serie si è spostata a New York. E ieri notte si è giocato il primo dei 3 match in programma allo Yankees Stadium.
Freddie Freeman lo ha ammutolito subito, con l’ennesimo fuoricampo stagionale. Subito dopo Tommy Edman ha coperto la corsa sulle basi grazie a Shohei Ohtani e Mookie Betts, portando Los Angeles sul 2-0 al primo inning. Il lanciatore partente Walker Buehler, ed il campo interno dei californiani, hanno gestito benissimo questo vantaggio. Che l’attacco ha fatto ulteriormente lievitare. Fino al 4-0 con il quale i Dodgers hanno assorbito di mestiere la disperata fiammata finale degli Yankees, in chiusura di nono inning. 4-2 finale e 3-0 per LA nella serie.
Se l’esito delle World Series sarà ancora in bilico dopo cinque incontri, si tornerà a Los Angeles. Per gli ultimi due.
La concomitanza con le imminenti Elezioni americane hanno fatto sì che queste epiche Series oscurassero addirittura le ultime schermaglie tra Donald Trump e Kamala Harris. Uno dei quali, martedì prossimo, verrà scelto dal popolo statunitense come 47º Potus (President of the U.S. ndr) della storia.
Dal baseball all’hockey, dalle mazze ai bastoni, giusto per rimanere in tema di amori.
Bolzano ha chiuso domenica le sue Series - cinque incontri in soli nove giorni - lasciando per strada solamente il match contro Salzburgo di venerdì scorso. E mandando in archivio il primo girone della stagione con un bilancio molto più che lusinghiero: 30 punti, frutto di 10 vittorie su 12 incontri, prima posizione in classifica, 5 punti di vantaggio su Graz, sua diretta inseguitrice.
Anche se in circolazione continuano ad imperversare, con i loro sproloqui, faziosi puristi capaci di storcere il naso per il mancato raggiungimento della perfezione assoluta, l’Armata Biancorossa occupa a pieno titolo la mattonella più pregiata della Lega.
Ci eravamo lasciati, nella scorsa rubrica, alla vigilia del pericoloso crocevia di Klagenfurt.
Finora il Bolzano versione export non ha mai fallito un appuntamento in trasferta. E la tradizione è proseguita anche sulla sponda orientale del Wörthersee.
In questo avvio di stagione, le Rotjacken si sono riflesse sulle acque del loro amato lago senza l’originale lucentezza che le ha sempre contraddistinte. KAC è sempre stato acronimo portatore di cattivi presagi. Ora però Klagenfurt viaggia con troppa incostanza rispetto al passato. Nonostante abbia azzeccato in pieno il colpo più fragoroso del mercato estivo: Mathias From. Il gigante danese che sembra uscito dal compendio del perfetto hockeista.
Certo, le fatiche della Champions hanno inciso negativamente. Ma la proverbiale solidità difensiva è solo un ricordo, allo stato attuale delle cose. foto:
EC-KAC/Florian Pessentheiner
Tempo per ricalcolare la rotta, Klagenfurt ne ha in abbondanza. Gli auguriamo che i suoi tifosi - ed il veterano Sebastian Dahm - non siano costretti ad attendere a lungo gli auspicati correttivi al reparto difensivo.
Oggi le “giubbe rosse” sono costrette ad usare il binocolo per vedere la vetta della classifica. Questo perché le volpi biancorosse si sono portate a casa tutti i punti in palio anche nel confronto diretto di una settimana fa. Un match che ha messo in risalto l’attuale differenza tra i due team. Il Bolzano ha chiuso infatti con 41 tiri contro i 19 dei padroni di casa. Cifre davvero impietose.
Comunque, il duello di Klagenfurt si è aperto allo stesso modo di quello di Graz. Padroni di casa in vantaggio con Matt Fraser ma biancorossi implacabili, nel loro lento e progressivo recupero del comando delle operazioni.
Benissimo Tony Salinitri, che ha definitivamente cancellato quel minimo dubbio che aveva accompagnato il suo arrivo a Bolzano. E grandissima la prestazione di squadra nel terzo periodo. Dove si sono distinti parecchi autori. Vedi Daniel Frank, Brad Christoffer, Brad McClure. E quel Chris DiGiacinto che sta sempre più diventando uno degli idoli della tifoseria.
Venerdì sera, invece, l’attesa del match contro le Lattine ha scosso le fondamenta del Palaonda.
A causa della composizione della quaterna arbitrale.
Quando si parla di lui si devono scindere due figure. Quella del ragazzo da quella dell’arbitro.
Il ragazzo merita tutto il nostro rispetto. A prescindere. Perché si legge dal suo volto quanto sia una persona di quasi 35 anni, assolutamente normale, pacifica, con una smodata passione per l’hockey su ghiaccio, la stessa che proviamo noi, mi sembra di poter dire.
L’arbitro invece ci obbliga a spendere alcuni perché. Oltre alla stessa dose di rispetto. Anche se parlare della sua figura di referee è una vera e propria prova di ardimento. Che vorremmo tentare di affrontare comunque. Anche se potrebbe essere molto facile scivolare nel banale.
Nonostante la sua giovane età, ha già diretto in carriera oltre 500 match. Suddivisi tra Austria, Germania e Svizzera. Moltissimi dei quali assieme al suo gemello, Kristijan.
Ha iniziato a praticare da giovanissimo, nel 2006. E fa parte dal 2012 della terza squadra che scende sul ghiaccio ogni benedetta giornata di questa Lega mitteleuropea.
Ora, andiamo al sodo della questione.
Perché questo odio nei suoi confronti?
Che bisognerebbe estendere anche a suo fratello, a questo punto.
Da dove nasce? E perché, soprattutto, è diventato bilaterale?
Il rapporto tra i gemelli ed i biancorossi nasce in tempi non sospetti. Inizialmente era totalmente neutro. Poi, dal 2014 ad oggi, sono cominciate a fioccare le interpretazioni del regolamento che hanno gettato sul ghiaccio i primi ragionevoli dubbi sul loro operato. E sulla metodologia che, dietro le quinte, il board arbitrale della Lega allegava alle loro designazioni. Anche - e non solo, attenzione! - per le partite dell’Hockey Club Bolzano.
Con il passare delle stagioni agonistiche, la relationship tra quegli arbitri ed i biancorossi si è progressivamente incrinata. Fino a diventare irrecuperabile. Perché al Palaonda, gradualmente, si è generata col tempo quella che comunemente viene definita la “cultura del sospetto”. Non un malessere tipicamente italiano. Ma insita dell’essere umano.
Quando la squadra arbitrale della Lega comprendeva uno di loro, a Bolzano come altrove, emergeva il dubbio che dietro la designazione ci fosse un disegno preciso. E si sussurrasse, oramai in modo sempre più netto e frequente, che i vantaggi scaturiti dalle loro direzioni arbitrali fossero smaccatamente unilaterali. Indirizzati, se proprio lo dobbiamo dire, verso il team che alberga nella città di Mozart.
A corroborare questa teoria, che potrebbe sembrare avventata se non ci fossero numerosi indizi a sostenerla, prima della serie di finale dello scorso aprile tra Salzburgo e Klagenfurt, anche i bollettini che uscirono dall’ufficio stampa del Kac si auspicarono che l’operato del terzo team sul ghiaccio fosse il più neutrale possibile. Semplice casualità?
Torniamo al presente.
Se il nome di Manuel Nikolic esce casualmente dal setaccio del designatore, si può pacificamente osservare che i biancorossi siano poco fortunati nell’esito del sorteggio. Se, per quel che temiamo, sia preventiva, quando al Palaonda si esibiscono i salisburghesi, allora il discorso muta radicalmente nella sua sostanza.
La realtà delle cose dimostra inequivocabilmente che Manuel Nikolic e l’Hockey Club Bolzano non si ameranno mai. Troppe situazioni, più o meno dubbie, hanno creato il reciproco logorio. E molte volte il pubblico bolzanino ha manifestato senza equivoci il proprio disagio nei suoi confronti.
Il peggio accade quando il ragazzo viene provocato, a causa di una chiamata dubbia. Perché cambia totalmente atteggiamento. E lo si può intuire abbastanza chiaramente.
Quando è infastidito, non ce la fa a nascondere del tutto la propria insofferenza, cercando di mascherarla con la supponenza, soprattutto sotto la balaustra dei Figli di Bolzano. Accompagnandola con una gestualità che ricorda il Marchese del Grillo. Quando rammenta, a chi non lo sta certamente osannando: “Io sò io. E voi...”.
Nonostante allo zebrato austriaco stia sulle palle la piazza bolzanina, Manuel Nikolic non ha arbitrato in modo malvagio. Per 30 minuti il match è stato incredibilmente spettacolare. Sembrava gara 7 dello scorso aprile. Per intensità ed agonismo. E lui non ha assolutamente inciso negativamente sul confronto.
Poi, nella testa dei biancorossi, è entrato un granellino di sabbia nel meccanismo della concentrazione. E sono sopraggiunti l’interferenza di Pascal Brunner ed il colpo di bastone di Cole Hults. Penalità ammesse dagli stessi giocatori.
Nikolic ha sorvolato poi su un paio di cariche al limite, distribuite equamente. È stato forse severo sulla trattenuta di Luca Frigo ma non ha potuto non vedere il fallo di Matt Bradley che neutralizzava quello appena commesso da Nikolaus Kraus.
L’ultima chiamata, quella su Scott Valentine, è costata al “Numero 22” una bella doccia di birra Forst, gentilmente offerta dalla curva. Ma, come ammesso anche da capitan Daniel Frank nel dopo-partita, le penalità ci stavano. Inutile recriminare contro di esse.
Salzburgo ha messo in cascina tre powerplay magistrali. Bolzano li ha bucati tutti e quattro.
Può essere questo un importante metro di giudizio, nel primo incrocio stagionale tra le due.
Bolzano all’inizio ha creato tanto, anzi tantissimo, in cinque contro cinque. Reggendo benissimo il confronto con lo storico avversario. Come dimostrano i 14 tiri a 5 del primo tempo. Ciò dovrebbe dare ulteriore consapevolezza allo staff tecnico ed alla squadra. Questo gruppo è superiore a tutte le altre avversarie della ICE. Come dimostrato analiticamente dai risultati.
Poi, quando le penalità hanno spezzato il ritmo alla regolarità, i valori sono emersi al contrario. Salzburgo ha messo sul ghiaccio un powerplay letale. Bolzano ha lasciato invece a desiderare. Ed ha pure trovato un David Kickert davvero superbo, in opposizione ai tentativi biancorossi.
Una lezione che potrebbe rivelarsi molto preziosa per il futuro. Se l’Armata Biancorossa saprà trasformare in virtù la sua devozione alla disciplina, non avrà problemi a mantenere l’attuale posizione di vertice. E non ci sarà alcun Nikolic che tenga. Questo è pressoché certo.
Domenica scorsa, infine, i Foxes sono scesi sul ghiaccio della Vorarlberg Halle di Feldkirch con una pesante pastrana sulle spalle. Non per il freddo. Ma per la statistiche da brivido.
Lo dice la storia. Quando il pullman biancorosso, da calendario, è stato costretto a dirigersi verso il lembo più occidentale dell’ex impero austroungarico, sovente ha riportato a casa una squadra affranta dalla sconfitta. Ma non in questo caso. Altro indizio di peso sulla bontà di questo team.
Da 32 anni, titolava il Giornale Alto Adige, il Bolzano non assaporava il dolce retrogusto della vittoria. Il nostro Alessandro, vero e proprio data base delle vicende biancorosse, è andato ben oltre. Ricordandoci come dal 1968, su 40 incontri in Vorarlberg, tra Feldkirch e Dornbirn, solo in 13 circostanze il sacco dell’Armata Biancorossa sia andato a buon fine.
Il match, ovviamente, ha ricalcato alla lettera il solito copione. Bolzano nettamente superiore nel computo totale dei tiri in porta (36 a 18) ma costretto agli straordinari per indurre alla ragione la sua proverbiale Bestia Nera.
La cronaca è emblematica, a riguardo.
𝐹𝑜𝑡𝑜: 𝐷𝑜𝑟𝑛𝑒𝑟_𝑝𝑖𝑜𝑛𝑖𝑒𝑟𝑖.ℎ𝑜𝑐𝑘𝑒𝑦
Glen Hanlon lascia le chiavi della porta a Gianluca Vallini. E Jonny ripaga la scelta del suo coach con una prestazione confortante. Arricchita da una sicurezza espressa attraverso il senso di posizione ed il ricorso all’estemporanea sostanza. Come accaduto in occasione della duplice occasione avuta da Josh Passolt nel primo tempo. La prima spedita sull’esterno della rete. La seconda, sugli sviluppi dell’azione, respinta in tuffo dal nostro portiere, con una parata a due mani, a neutralizzare il tiro a colpo sicuro dell’ala sinistra del Wisconsin, alla prima esperienza in Europa.
È sempre Toni Salinitri l’alfiere deputato a tenere alto il cencio biancorosso. Perché ancora una volta è il numero 71 ad indirizzare il match in apertura. Con un magico slash di polso sul quale David Madlener non può opporsi.
Bolzano si dimostra più disciplinato rispetto a due giorni prima, ma è sempre una superiorità numerica dell’avversario ad essere fatale ai biancorossi. Luca Frigo viene spedito in panca puniti per un’interferenza; 90 secondi dopo Vorarlberg pareggia.
Come a Klagenfurt, ed ancor prima a Graz e Lubiana, anche a Feldkirch i Foxes capitalizzano nel terzo periodo. Una caratteristica che evidenzia l’importanza di avere un roster molto profondo.
Il manometro dell’intensità di Vorarlberg è sempre spinto al massimo della capacità. Ma questa è ancora una volta la serata del Bolzano. La decima della stagione. La sesta consecutiva al di fuori delle mura della sua Arena di via Galvani.
Giordano Finoro veste i panni dell’assistman. E manda in estasi i suoi compagni di squadra. Prima manda in golMichele Marchetti, che riscrive a referto il gol annullatogli nel secondo tempo. Eppoi Adam Helewka, in situazione disuperiorità numerica per il Bolzano. L’unica delle quattro finalizzata positivamente. Ma nel momento decisivo del match, subito dopo la prodezza dello stesso Passolt, abile nel rimettere nuovamente allineati i piatti della bilancia.
Bolzano non espugnava Feldkirch dai tempi delle guerre puniche. Il sigillo porta la firma di Cole Hults, glacialenellospedire in fondo alla gabbia disadorna il puck della sentenza inappellabile.
Proprio nel momento di chiudere il nuovo capitolo della nostra rubrica, giunge l’eco oscuro della tragica fatalità. La più grande promessa dello sci azzurro, Matilde Lorenzi, non ce l’ha fatta.
Nel cielo stellato, in cui amo perdermi alzando lo sguardo, la sua luce splenderà per sempre...