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"I portieri sono gli eroi solitari. Quelli che non possono sbagliare. Là, abbandonati al proprio destino sotto gli occhi dello stadio".
(Marco Ansaldo). Assi di bastoni #9 - tempo di lettura 10 minuti -

 Fin da bambino, ho sempre avuto una viscerale predilezione per i portieri.

Amavo elaborarli con dosi massicce di fantasia. Riuscendo addirittura nell’impresa di fargli prendere sembianze diverse. Ad esempio quelle di cavalieri medievali, tanto meravigliosi quanto imponenti, in sella ai loro destrieri, calati nelle loro armature, la spada o la lancia serrate nel loro guanto d’acciaio.

I loro ideali, le loro giuste cause, erano pressoché gli stessi. La difesa dei vessilli e dei territori nobiliari, il giuramento di fedeltà, il senso dell’onore.

Calcaterra Il primo grande portiere della secolare storia hockeistica del nostro Paese fu un milanese purosangue: Enrico Calcaterra.

Nato il 1º gennaio 1905, a soli 19 anni contribuì alla fondazione dell’Hockey Club Milano, il 10 marzo del 1924. Incoraggiato da Frank Roncarelli, ottimo giocatore ed allenatore di hockey, nonché marito di una sua cugina, Calcaterra indossò per 14 lunghissimi anni due sole casacche.

Quella nera, dell’HC Milano e quell’azzurra, della Nazionale italiana.

Enrico era decisamente basso di statura, tanto da venir soprannominato nell’ambiente come il “portiere bambino”, dotato di riflessi eccezionali. Come un cavaliere, non gli facevano certo difetto nè la forza fisica nè il coraggio. Un solo limite lo condizionò. L’insorgenza di una fatale patologia. Proprio alle mani, le principali armi di difesa in dotazione ad un fedele guardiano. 

Calcaterra convisse per numerose stagioni con quel problema. Ma ciò non gli impedì di conquistare ben 9 titoli italiani. E di partecipare a 4 Mondiali, 2 Europei e pure ai Giochi Olimpici di Garmisch Partenkirchen, nel 1936.Calcaterra Hall of fame

Quando ripose il guanto d’acciaio, Enrico Calcaterra intraprese un’altra straordinaria carriera nell’ambiente che gli fu più caro. Dopo un lungo apprendistato, durante il quale mise in evidenza inusuali doti diplomatiche, venne eletto presidente della FIHG (il primordiale organo sovrano dell’hockey, costituitosi nell’immediato Dopoguerra) dal ‘46 al ‘52. E successivamente dell’attuale FISG, dal ‘60 al ‘72.

Come membro del CONI, fu l’unico italiano a partecipare per 35 anni consecutivi (dal 1933 al 1968) ai congressi della IIHF, l’International Ice Hockey Federation.

Quando morì, l’8 giugno 1994, cinque anni dopo gli vennero riconosciute, nel modo più alto ed appropriato, le sue due vite lasciate nelle mani dei tenutari del regno. Quella di eccellente portiere sul ghiaccio e di sagace diplomatico nelle stanze del potere. Venendo collocato, al termine di una toccante cerimonia, nel leggendario salone della Hall of Fame. Privilegio che è stato concesso solamente a due connazionali. Al portiere bambino. Ed a Lucio Topatigh.

Un altro straordinario interprete del ruolo fu proprio un compagno di squadra di Enrico Calcaterra. Ma solo in maglia azzurra. Ovvero Augusto Gerosa. Il fantastico portiere degli altrettanto leggendari Diavoli Rossoneri. Protagonisti del dualismo che si visse a Milano già dagli anni Trenta, Enrico ed Augusto vissero un centinaio di derby a difesa delle loro gabbie contrapposte. Ma per amore della stessa Patria, sedettero fianco a fianco nelle foto in bianco e nero che li immortalarono con la maglia della Nazionale addosso.Gerosa

Augusto Gerosa verrà ricordato per sempre, negli almanacchi dedicati all’hockey, per essersi reso protagonista di una prestazione superlativa in occasione di una delle più importanti e prestigiose vittorie conseguite dalla Nazionale italiana nel corso della sua storia. Il successo per 1-0 contro gli Stati Uniti, proprio alle Olimpiadi di Garmisch Partenkirchen, nel ‘36. Quel gol clamoroso venne realizzato da Gianni Scotti, uno dei tanti campioni che elevarono il vessillo dell’HC Milano. Ma venne difeso, in un modo molto simile al sovrumano, proprio da Gerosa, autore di ben 14 salvataggi determinanti nell’ultima frazione. Quando gli statunitensi misero in atto un forcing martellante, che però non sortì alcun effetto desiderato.

Augusto Gerosa, prima di essere portato in trionfo dai compagni al termine di quell’indimenticabile confronto, ricevette sportivamente le congratulazioni da Walter Brown, il selezionatore degli USA. E nulla mutò, nella sostanza di quella memorabile impresa, quando l’Italia perse il giorno dopo - con medesimo risultato - contro la Svizzera.

Venendo a fette di storia a noi molto più care e vicine, ad esempio ai portieri del passato, che difesero la gabbia dell’Hockey Club Bolzano, l’impolverato - ma pur sempre nobile ed austero - archivio biancorosso ripropone due nomi non certo contemporanei. Ma che a modo loro hanno lasciato una tangibile traccia del loro passaggio nella novantennale vita del nostro Club.

Biasi e B. Stenico 47


(Marco Biasi affiancato da Bruno Stenico 4:4 ad Alleghe 1947) 


Il primo di cui vorrei parlare è Marco Biasi, il difensore della gabbia biancorossa dai giorni della Liberazione, del 1945, fino all’altrettanto fatidico 1953. Quando venne aperto al pubblico, il 7 di novembre, il Padiglione 1 della Fiera campionaria di Bolzano. Un luogo che divenne uno dei più amati e frequentati della città. Il Palazzo del Ghiaccio di via Roma.

Marco Biasi aveva caratteristiche fisiche molto simili a Calcaterra. Non molto alto di statura, però reattivo ed efficace quando abbassava le spalle per creare un tutt’uno con la sua porta. Davanti a lui giostravano due signori difensori. Il gigantesco Bruno Morlacchi, un granatiere che sui pattini superava comodamente i due metri, ed uno dei primi seguaci dello stile pulito e risolutore del difensore moderno: Bruno Stenico, padre di Renzo, altro grande personaggio dell’ambiente a noi consueto.

Erano gli anni antecedenti via Roma, in cui gli appassionati si affacciavano, accalcati come non mai, lungo il perimetro dell’impianto riservato all’hockey, ai Piani di Bolzano. In una zona a ridosso della ferrovia e denominata in modo alquanto appropriato: Siberia. Quando il Generale Inverno scatenava i suoi elementi portando quell’ambiente al limite della sopravvivenza.

M. Biasi in gioco
In quegli anni, l’attacco del Bolzano poté esibire sul ghiaccio Armando “Pico” Mencarelli, in ordine temporale, il primo prodotto implementato e cresciuto all’interno del suo glorioso vivaio. Che ebbe il merito e la fortuna di indossare il biancorosso dalla fine degli anni ‘40 fino agli inizi degli anni ‘60.

Marco Biasi, comunque, segnò a modo suo quella distinta epoca, subito antecedente al magico quarantennio vissuto dall’hockey in via Roma.

Come Calcaterra, Biasi divise il suo amore per il disco sul ghiaccio. E lo destinò un tanto per la pista ed un tanto per gli uffici della FISG, sia come figura di riferimento della Nazionale che come profondo, e per questo ineguagliabile, conoscitore di ogni meandro e di ogni cavillo del regolamento. Memorabili, in questo senso, resteranno i suoi interventi risolutivi al Palafiera, a partita in corso, per levare d’impaccio il board arbitrale, alle prese con improvvisi vuoti decisionali.

L’ultimo protagonista, di cui vorrei tracciare una speciale menzione prima di tornare all’attualità, fu proprio l’estremo difensore che prese il posto di Marco Biasi quando il Nostro decise che era giunto il momento adatto di passare la mano. E la responsabilità di proteggere la gabbia biancorossa. Ovvero Giuliano Ferraris, meglio noto come “Ciccio” agli amanti dell’hockey. Quelli che viaggiano oltre la cinquantina. Ferraris BZ 56 57 

(Giuliano Ferraris - Bolzano 56/57) 

Ferraris difese quella gabbia dal momento in cui il Bolzano elesse via Roma come sua dimora fino alla tarda primavera del 1964. Quando, a sua volta, da depositario a fine mandato passò le chiavi della porta a due figure immense. Come Franco Viale e Romeo Tigliani.

Giuliano, perché Ciccio mi suona poco poetico e mi riporta ad avvenimenti molto più recenti, oltre ad essere protagonista del primo scudetto della storia biancorossa, stagione ‘62-‘63, rimarrà eternamente esposto negli annali, quelli che davvero contano per il nostro sport, per un’impresa alquanto simile a quella di Augusto Gerosa. Eccovela.

1956: Giochi olimpici invernali, Cortina d’Ampezzo. Il primo evento, a Cinque Cerchi, irradiato dalla tivù in diretta ed in Mondovisione. La cassa di risonanza costituita dal tubo catodico ebbe effetti planetari, a livelli mai conosciuti prima. Tanto che l’Italia venne gratificata dal Comitato internazionale olimpico con l’edizione estiva dei Giochi, a Roma, quelli del 1960.

Lo Stadio olimpico di Cortina venne vivisezionato dalla moltitudine di inquadrature televisive durante la cerimonia inaugurale. E fu ovviamente sede del torneo olimpico, riservato all’hockey.

Ferraris e Don Rigazio USA Cortina 56
(Giuliano Ferraris e Don Rigazio U.S.A. a Cortina 56) 

In quella circostanza entrò in... gioco proprio Giuliano Ferraris.

Bibi Torriani, sia da atleta che da allenatore, leggenda elvetica del Davos e della Nazionale del suo Paese, accettò di buonissimo grado il ruolo di selezionatore azzurro in vista di quelle Olimpiadi. Ben sapendo, tra il resto, quanto importante fosse l’impatto del peso specifico di quell’esperienza sulla sua carriera di allenatore.

Torriani venne sommerso, alla vigilia, dalle polemiche. Quando decise di spezzare in due tronconi la celeberrima ABC, la linea d’attacco tutta italiana più bella e spietata della storia, composta da Giancarlo Agazzi, Giampiero Branduardi ed Ernesto Crotti (diventate vere e proprie star dell’hockey mondiale, oltre che milanese, proprio grazie alla diretta televisiva). Il coach spostò in un altro blocco “Brandina” Branduardi ed affiancò l’oriundo Aldo Maniacco ad Agazzi e Crotti. I risultati diedero successivamente ragione a Torriani. Quindi, non fece più di tanto scalpore la sua decisione di gettare nella mischia Ferraris dopo i due pareggi, entrambi per 2-2, nel girone di qualificazione contro Austria e Germania. L’avversario era di quelli che non lo avrebbero fatto dormire, alla vigilia del match. Ovvero il Canada.


Quando scese sul ghiaccio dell’Olimpico, Giuliano Ferraris ricevette e ricambiò il saluto del suo collega canadese: Denis Brodeur. Il genitore di Martin, 22 stagioni e 3 anelli con i New Jersey Devils. Il pubblico, numerosissimo, prese ad incitare ovviamente gli Azzurri. Ed è lecito immaginare che quella scossa positiva, scesa dalle gradinate dell’Olimpico, gli diede una carica particolare.

Quel giorno Ferraris iniziò il match chiudendo a doppia mandata la sua gabbia. Un muro invalicabile. Anche per Maestri dell’Hockey come i canadesi.

Lo stato di grazia attraversato dal loro portiere, trasmise sicurezza a tutti gli Azzurri. Ed uno in particolare, Ernesto Crotti, cominciò il suo personale duello con Brodeur.

Per il suo bagaglio tecnico “Tino” era tra i più temuti, a ragione, dal comparto difensivo canadese. Che fece subito ricorso alle maniere forti, allo scopo di limitare il raggio d’azione del nostro numero 8. I canadesi però non potevano immaginare quanto Crotti si esaltasse ulteriormente davanti alle difficoltà. Dopo tre tentativi consecutivi, sventati dal monumentale portiere canadese, Ernesto lo fece capitolare con una magia.Denis Brodeur

(Denis Brodeur) 

L’Olimpico esplose di entusiasmo. L’Italia andò clamorosamente in vantaggio.

A quel punto Ferraris salì in cattedra. E resistette fin quasi allo scadere del secondo periodo. Quando il Canada riuscì a pareggiare, dopo ripetuti assalti all’arma bianca.

Tutto si sarebbe compiuto nell’ultimo parziale. Il Canada non commise due volte lo stesso errore. Ed attese le iniziative dell’avversario. Sbarrandogli però, con la forza, ogni pertugio utile ad insidiare Brodeur.

Dall’altra parte Ferraris fu addirittura commovente. L’Olimpico percepì l’impresa eroica e trascinò gli Azzurri in modo ancor più evidente. Crotti e Maniacco ebbero sulla spatola il colpo del kappaò, su due invenzioni geometriche di Agazzi, debellate sempre e comunque da un attento Brodeur.

Tutto sarebbe stato deciso dal singolo episodio. Che premiò i canadesi, a 10’ dal termine.

Ferraris fu costretto ad incassare il decisivo 2-1. Poi risultato finale. Ma quel match, la sua più che sontuosa prestazione, in diretta televisiva, creò un’aura sulla sua carriera che non si dissolse nemmeno quando annunciò il suo ritiro. Rimase, e rimarrà per sempre, come una delle migliori partite giocate da un goalie azzurro, nella storia delle competizioni della nostra Nazionale.

Dopo questo tourbillion d’emozioni obsolete, pur sempre vive nei cassetti della memoria, dedicherei doveroso spazio anche alle vicende dello scorso weekend. Quello in cui i Foxes hanno bissato i due successi del precedente fine settimana, prolungando a quattro la serie d’en plein consecutivi.

Il tutto, nel nome di altri due portieri. Vanto della nostra squadra. E direi anche dell’intera Ice.

Gianluca Vallini e Sam Harvey.

Vallini vs PioneersIl primo è stato incaricato dal nostro coaching staff di inaugurare lo scorso weekend. Segno della fiducia guadagnata attraverso la dedizione al lavoro e l’applicazione in allenamento, con le quali Jonny sa muoversi all’interno del Palaonda. 
Direi, senza ombra di smentita, quando oramai tutti hanno concluso il proprio giro d’orientamento, che il nostro numero 35 sia stato assolutamente all’altezza della situazione. Nonostante i Pioneers Vorarlberg rappresentassero un ostacolo abbastanza proibitivo. Fosse solo perché si trascinano appresso, di stagione in stagione, la loro fama di squadra dedita al gioco duro.
E, sopra ogni altra cosa, la nomea di vera e propria Bestia Nera dei biancorossi.

Vallini ha cancellato venerdì sera qualche dubbio, accompagnato da affrettati mugugni, sollevato da una infinitesimale quota di spettatori. I quali, dopo un paio di prestazioni non ancora al suo livello durante l’hockey d’agosto, gli avevano già posizionato al collo il giogo della vergogna.

Jonny, nella circostanza, non ha dato peso alle critiche. Facendosi trovare assolutamente pronto quando la squadra avrebbe avuto necessità del suo invidiato back-up.

Contro i Pioneers si è rivisto il Vallini che tutti conosciamo. Reattivo e concentrato. Autore di parate spettacolari, compiute anche nei momenti topici dell’incontro. Che gli hanno fatto vincere il duello a distanza, tutto italiano, con Alex Caffi, il rilievo varesino in forza al team di Feldkirch. E che gli è anche valso il titolo di mvp della serata al Palaonda.

Forse, memori delle sconfitte patite da questo team anche in casa ed in un recente passato, anche  il match di venerdì sera si sarebbe potuto tranquillamente perdere. Invece, grazie all’ottimo lavoro svolto dal nostro portiere ed alla splendida marcatura di Toni Salinitri, il Bolzano è rimasto nella scia dell’avversario. Raggiunto con una clamorosa autorete. E superato dal meraviglioso coast to coast di Adam Helewka. Poi irrobustito dall’empty nel gol di Luca Frigo.

Sono cambiati gli interpreti di questo Bolzano. Rispetto al passato quelli attuali hanno già dimostrato, o saranno certamente in grado di farlo, di poter garantire ai biancorossi altri gradi di potenzialità - e quindi anche di pericolosità -. Con buona pace degli appassionati.

Domenica pomeriggio, invece, è stato Sam Harvey ad occuparsi della pratica Vienna. Le previsioni attribuivano gli austriaci di migliori credenziali rispetto al passato. E la tattica, parsa attendista, impostata dal coaching staff bolzanino, è sembrata impostata proprio sul controllo dell’avversario piuttosto che sulla ricerca di un dominio territoriale e di una conseguente manifesta superiorità. Alla stregua dei match dello scorso weekend, contro Linz e Valpusteria.Harvey a Vienna

 (Foto credit Leo Vymlatil)


A sbloccare la situazione, ed a spostare gli equilibri maggiormente a favore della squadra ospite, ci ha pensato il fato. Quel destino che concede ad un vecchio dipendente di punire simbolicamente il suo precedente datore di lavoro. Matt Bradley, ex di turno ed in inferiorità numerica, è riuscito nel secondo periodo ad eludere la sorveglianza imposta dallo special team viennese.
Portandosi a tu per tu con Tyler Parks per trafiggerlo con un micidiale fendente collocato, in diagonale, proprio all’incrocio dei pali. Un gol splendido, realizzato proprio sotto la curva dei suoi vecchi supporters.

Nell’ultima frazione ci ha pensato invece Daniel Mantenuto, con un altro dei suoi gol d’autore, a chiudere il contropiede dettato da Simon Bourque.

Due lunghezze di vantaggio, che hanno dato maggior tranquillità al pancone biancorosso. Anche perché, sul panno verde del match, il Bolzano ha calato un altro asso di assoluto prestigio. Quel Sam Harvey per il quale, oramai, si sono sprecati tutti gli aggettivi altisonanti che potevano calzare sul suo prospetto. Un giocatore, calato in un ruolo fondamentale dello scacchiere di Glen Hanlon, promulgatore di quel “Defense First”, che beneficia proprio dello stato di grazia attraversato dal suo guardiano per dare maggiore efficacia alla sua tattica di maggior successo.

Per Sam, secondo shutout stagionale in sole tre uscite. Un inizio di stagione stratosferico. Su di lui, come sui nuovi interpreti di questo Bolzano, le quote degli allibratori tendono già al fisiologico ribasso