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Nel grande appartamento di via Orazio, al piano attico del palazzo posto esattamente in perpendicolare con via Amba Alagi, la mia famiglia visse per oltre 20 anni - dopo il trasloco da Venezia a Bolzano, avvenuto nell’agosto del 1968 .
Alla vista di parenti ed amici, la pulizia ed il perfetto ordine della zona giorno, ospitale ed elegante, mettevano sempre in risalto le qualità e le caratteristiche di mamma Gisella. Casalinga vecchio stampo. Di una meticolosità quasi leggendaria. Ed un’encomiabile fantasia culinaria.
Unico néo di quella casa, a pensarci bene, fu il nuovo arredo del soggiorno. Molto poco consono ad un nucleo familiare proveniente dalla Serenissima.
La causa fu totalmente attribuibile a mio padre. Che non lasciò alcun margine di trattativa alla sua sposa, quando decise arbitrariamente che i mobili dell’elegante locale attiguo alla cucina dovevano essere perfettamente in linea con le osterie ed i gasthof del centro, che lui amava frequentare con i colleghi giornalisti.
Fu così che, giunta da un noto mobilificio altoatesino - specializzato in linee d’arredamento alquanto rustiche - fece il suo ingresso nella nostra vita una stube in perfetto stile tirolese.
Ebbene, anche se non ammise mai il suo disappunto, mia madre elesse comunque quell’ambiente come il suo preferito. Dove trascorse la maggior parte delle sue giornate.
Tralasciando i dettagli di alcuni dei suoi banali passatempi, come la briscola o la Settimana Enigmistica, la vera passione della mia adorabile mamma fu lo sport. Seguito rigorosamente in tivù, e categoricamente da sola, su un’ampia e comoda sedia a sdraio, in legno, con poggiagambe estensibile, in voga negli anni Settanta. Collocata sotto le finestre del soggiorno.
Lo sport che mamma Gisella amò di più fu il ciclismo.
Quando nel settembre del 1973, a Barcellona, Felice Gimondi battè allo sprint il favoritissimo Freddy Maertens, laureandosi campione iridato, mamma perse totalmente il suo apprezzabile aplomb. Lanciando un urlo poderoso.
Io e mio fratello Ivan non udimmo mai una cosa analoga durante i suoi proverbiali cazziatoni. Che, probabilmente, arrivò anche ai tifosi assiepati lungo il circuito di Montjuich.
Anche le Olimpiadi le piacevano molto, soprattutto l’atletica leggera, al pari della Coppa Rimet di calcio. E del Mondiale di Formula Uno.
Un giorno scrisse addirittura ad Enzo Ferrari, per ottenere l’autorizzazione a visitare gli stabilimenti di Maranello assieme ai membri del club C.B. Bolzano (il gruppo di radioamatori su banda cittadina, di cui i miei genitori facevano parte con i “nickname” di Gisella e Anonimo Veneziano).
Il Drake, come veniva soprannominato Enzo Ferrari, rispose a mia madre.
Purtroppo non potè acconsentire alla sua richiesta. Ma si complimentò per la competenza e la passione per il Cavallino che trasparivano dalla sua lettera.
Quando colse in me le sue stesse attitudini, mi incoraggiò a frequentare gli ambienti sportivi. A patto che non trascurassi lo studio. Un accordo che ruppi davvero molto presto. Quando decisi di lasciare la scuola per guadagnarmi i primi soldini, lavorando a tempo pieno per le radio libere.
Resterà scolpita - per sempre - nella mia mente, una serata di campionato di serie A di hockey su ghiaccio. Durante la stagione a cavallo tra il 1982 ed il 1983.
A quell’epoca stavo trascorrendo l’anno di naja. Alle caserme Huber, di viale Druso. In fureria. E, tra le mie mansioni, c’era anche la stesura delle licenze di coloro che facevano parte della memorabile squadra di hockey del IV Corpo d’Armata.
L’alto ufficiale Arnaldi era lo storico capo delegazione di quel team. Che venne allenato per molti anni da Giuliano Frigo. Una delle “Legends”, che conquistarono nel ‘63 il primo scudetto biancorosso della sua storia.
Tano Miglioranzi, Sergio Liberatore, Claudio Rier, Marco Scapinello...
Così, giusto per ricordare qualche componente di quella squadra.
In accordo con il direttore artistico di Radio Bolzano Dolomiti, Carlo Dalle Luche, quella fatidica serata di campionato mi liberai con un permessino dalla ferma militare. Allo scopo di salire sul torpedone dei tifosi, in partenza dal marciapiede di fronte al Palaghiaccio di via Roma. Destinazione: Ortisei.
Il match: un derby di fuoco, Gardena-Bolzano.
In palio, punti pesantissimi per la classifica della poule scudetto.
L’unico obiettivo utile dell’H.C. Bolzano: vincere. Come sempre.
Per veder spianata, sotto i suoi pattini, la trionfale e solitaria corsa verso il suo settimo scudetto.
Mamma Gisella, perfettamente conscia del mio dovere di salire in orario su quel pullman, per essere puntuale al palazzo del ghiaccio di Ortisei a preparare la mia radiocronaca, colta da un rigurgito di premurosità volle comunque preparare una lauta cena in luogo di un pasto veloce, che agevolasse le mie necessità.
Quella cena, la ingurgitai alla stessa velocità della celeberrima colazione fuori tempo massimo del ragionier Ugo Fantozzi. Prima di prendere la critica decisione di lanciarsi al volo, dal poggiolo di casa, sul tetto del 77 barrato. L’autobus che transitava ogni mattina lungo la tangenziale, proprio sotto la dozzinale palazzina di casa sua.
Purtroppo per me, non riuscii nello stesso intento di Paolo Villaggio.
Uscii di casa, a stomaco pieno. Imprecando. Lanciandomi in una corsa assassina.
Dopo l’incrocio tra viale Druso e via Roma, vidi in lontananza l’inconfondibile sagoma del mio 77 barrato. In movimento, verso il semaforo davanti al Moretti.
La mia unica e remota speranza fu che quel semaforo diventasse rosso. E vi restasse a lungo. Per tentare il gesto oramai disperato di raggiungerlo.
Poi... capitò l’imprevedibile.
Davanti al bar Internazionale, calò il buio. Nel termine più schietto della parola. Quello sforzo, al limite del sovrumano, mi oscurò letteralmente la vista.
Riuscii a sedermi su un muretto. Con la ferma volontà di riprendermi da quell’impasse.
Passarono minuti lunghissimi. Ma, un po’ alla volta, la vista tornò. E gradualmente, si fece sempre più nitida.
Mi alzai lentamente, da quel muretto. Per andare a riprendermi dallo spavento, proprio al bar Internazionale. Venni accolto dalla signora Italia, altra madre premurosa, che me lo lesse in faccia. Suo figlio, altri non era se non un grande capitano biancorosso dal glorioso passato... Arnaldo Vattai.
Italia cambiò espressione e la sua voce si fece ancor più tranquillizzante.
“Stai male? Hai una brutta cera. Vuoi che ti faccia qualcosa di caldo?”.
Le risposi in modo affermativo. E mi misi a sedere. In attesa di una tazza di camomilla bollente. “Molto zuccherata! Ti farà sentire meglio...”.
Quando ripresi vigore, mi incamminai verso casa.
Prima ancora di trovare le parole giuste, per spiegare alla mia, di madre, cosa accadde in quei minuti abbastanza angoscianti, mi concentrai sul “come” avrei potuto raggiungere Ortisei, con un mezzo alternativo. Perché diventò prioritario.
In radio, Carlo aveva predisposto tutto per la diretta dell’incontro. Deludere le sue aspettative, pur raccontandogli l’accaduto in modo accorato, pensai non fosse una buona idea.
E fu in quell’istante che escogitai la cosa più folle mai fatta nella mia vita.
Arrivato a casa, evitai di raccontare la verità a mamma Gisella. Le dissi solo che non riuscii ad arrivare in tempo. E che il pullman partì senza di me.
“E adesso, cosa fai?”.
Mi misi addosso: un paio di maglioni, una giacca a vento e sopra ancora, un vecchio cappotto di mio padre. Presi la mia vecchia Vespa Sprint Veloce blu, come la notte. E partii per Ortisei.
Una clamorosa pazzia.
Ai lati della strada, due muri di neve riportata. Perché nevicò in abbondanza, proprio la sera prima. Pregai che la strada, lassù, non fosse ghiacciata.
Mi sentii sfiorare appena da quel gelo pungente, tanto fui focalizzato dalla volontà di arrivare a destinazione, ed ebbi solo un lieve sbandamento, prima di Pontives. Davanti a me, le luci delle prime abitazioni. Ero quasi in prossimità di Ortisei. Mi feci ulteriore coraggio.
Parcheggiai il mio folle bolide alternativo. Ed entrai al palazzo del ghiaccio, in zona Setil. Con una normalità che sapeva d’incoscienza.
Ma quella serata non poté essere considerata né banale, né normale. Non ancora, quantomeno.
In quel match decisivo, per l’esito del campionato, sul ghiaccio gardenese l’H.C. Bolzano prese subito il pieno controllo delle operazioni.
Nella stessa linea d’attacco del top scorer della Serie A, Ron Chipperfield, viaggiava in piena sintonia con l’ex stella NHL uno dei giocatori italiani - a mio parere - più talentuosi mai visti in quegli anni nel nostro campionato.
Lodovico Migliore, detto Ico.
Piemontese d’origine, sempre fiero e leale in partita, capace di mostrare anche sui pattini il suo stile elegante, molto sabaudo in verità, fece davvero la differenza in quella stagione trascorsa in biancorosso. Conquistando il suo secondo scudetto con la maglia dell’H.C. Bolzano, dopo quello vinto nel ‘78-‘79.
A dimostrazione del suo risaltante spessore umano, Ico Migliore, dopo quella trionfale stagione hockeistica, nel 1983 riuscì anche a coronare il sogno di laurearsi in Architettura, al Politecnico di Torino, assieme alla donna fatale della sua brillante esistenza.
Una compagna di studi, diventata in seguito anche quella di una vita intera: Margherita Servetto. Con la quale aprì successivamente uno degli studi di designer più rinomati ed apprezzati in Italia. Che collaborò, tra l’altro, alla realizzazione di infrastrutture dallo stile unico ed inconfondibile, installate in vari campi gara alle Olimpiadi invernali di Torino, nel 2006, fortemente volute proprio dalla poliedrica donna manager a capo dell’organizzazione: Evelina Christillin.
La radiocronaca, intanto, procedette spedita. Dalla cabina telefonica collocata proprio sopra le tribune, la visione del match dominato dall’Armata Biancorossa fu perfetta. Potei percepire la probabile soddisfazione con la quale Carlo, il mio direttore di Radio Bolzano Dolomiti, stava portando a casa una diretta studiata nei minimi particolari, in una serata dai contorni - per me - vagamente melodrammatici.
All’improvviso, proprio davanti ai miei occhi, alcuni tifosi gardenesi attaccarono a male parole un gruppo di supporters biancorossi. I quali, reagirono subito, scatenando un tafferuglio di proporzioni bibliche, proprio davanti alla mia cabina telefonica.
Costretto dalla diretta, continuai come se nulla stesse accadendo ad inserire gettoni telefonici nella fessura dell’apparecchio, ed a descrivere lo sviluppo delle azioni sia sul ghiaccio che sulle tribune. Quando, davanti a me, la situazione degenerò.
Norbert Gasser e Guido Paur
I due contendenti più facinorosi, sballottandosi a destra ed a manca, piombarono di peso sulle porticine basculanti della cabina. Uno dei due si schiantò proprio dentro di essa, schiacciandomi in un angolo. Il mio equipaggiamento, da incosciente cronista d’assalto, venne letteralmente fatto volare in aria. Gettoni, penna e taccuino.
Al marasma della lotta tra i due energumeni, si aggiunse un altro deficiente seriale. Che prese a scuotere la cabina dall’esterno. Fin quasi a farla collassare al suolo.
Miracolosamente, il box rimase in piedi. Ma il telefono andò in tilt, ingurgitando tutti i miei gettoni.
Per completare la radiocronaca dovetti cercare un’altra linea telefonica. E procacciarmi altri gettoni, con le ultime migliaia di lire del misero budget a mia disposizione. Le avevo riservate per fare il pieno alla Vespa. Mi augurai, a quel punto, che la mia vecchia due ruote non mi lasciasse a secco, lungo la strada verso casa.
Riuscii ad arrivare, per Grazia Ricevuta, fino a Ponte Gardena. Solcando a bassissima velocità le tracce lasciate sulla neve dagli pneumatici delle auto e del pullman dei tifosi.
Il più era fatto.
Arrivai nel cortile di casa con gli ultimi vapori di benzina rimasti nel serbatoio.
Non raccontai assolutamente nulla, di quella notte da tregenda, a quella santa donna di mia madre. Rimasta sveglia ad attendere il mio ritorno all’ovile. In uno stato di crescente apprensione.
E nemmeno a Carlo...
Accantoniamo ora ogni evento inattuale, veri e propri spartiacque della nostra rubrica per focalizzarci, come sempre, sul presente.
La settimana scorsa abbiamo tutti assistito a quella che considero l’ennesima storpiatura del calendario della Ice Hockey League. Una squadra, proprio quella dei nostri beniamini, obbligata a tre incontri in quattro giorni, due dei quali consecutivi.
Ritmi abituali nella NHL, qualcuno potrebbe obiettare.
Quell’universo, gli risponderei, rimane a noi lontano. E di parecchi anni luce.
Non basta emulare, per poter tranquillamente paragonare.
Credo sia un semplice esercizio di buon senso.
Comunque sia, anche se questo messaggio lo libero volentieri nell’etere del web, nella speranza che venga recepito dalle persone giuste, l’Hockey Club Bolzano ha risposto “presente!” anche all’ultimo tour de force.
Certamente non una passeggiata di salute.
Visto che, ai biancorossi, la bizzarria e la casualità del programma della Ice Hockey League ha proposto, in rapida successione, tre avversari particolarmente rognosi.
Come Villach, Klagenfurt e Graz.
Ebbene, sette dei nove punti in palio sono stati messi in cascina dall’Armata Biancorossa. In risposta al severo banco di prova.
“Mandateci pure il Meglio della vostra Gioventù! Anche a distanza ravvicinata!”.
Potrebbe esclamare, idealmente e con orgoglio, il nostro stimato Dottor Key.
“Tanto noi il modo lo troveremo sempre”.
A Villach si è rivisto un “San” Harvey in versione stratosferica. Specialmente nel secondo periodo, il momento migliore della serata per i carinziani.
La nostra saracinesca ha vinto il duello a distanza con un ottimo Alexander Schmidt ed è uscita dal ghiaccio con una percentuale del 97,8%. Semplicemente mostruosa.
Oramai lo abbiamo capito un po’ tutti che tra gli uomini di movimento del Bolzano ci siano dei veri e propri fenomeni. Capaci di stabilire da soli il destino dei vari competitori.
Stiamo parlando di Matt Bradley ed Adam Helewka. Di Tony Salinitri e Chris DiGiacinto. Di Luca Frigo e Daniel Mantenuto. Di Brad McClure e Scott Valentine.
Ma anche di Simon Bourque, sempre più a suo agio nel ruolo di playmaker, e dell’infinito “last but not least” Dustin Gazley.
Altri interpreti, invece, per il momento sono meno decisivi ed appariscenti. Anche se, in ogni uscita, non mancano mai di dare il proprio contributo, di “fare legna”. Come si userebbe dire in gergo.
Tornando al vibrante testa a testa della Stadthalle di Villach, guarda caso, è stato proprio Matt Bradley a spegnere le luci dell’impianto. Mandando tutti a casa con un rigore infilato con freddezza alle spalle di un eccellente Schmidt, accasciatosi letteralmente su se stesso quando il puck lo ha battuto alla sua sinistra.
Unico néo della serata in Carinzia, l’espulsione per una carica alla testa, che ha maculato la prestazione di Brad Christoffer. Atto che gli è costato una giusta squalifica di due giornate.
Anche a Bolzano, il nostro numero 3 sta confermando la sua fama di duro, quando è sul ghiaccio. Le sue stats sono chiare e limpide a riguardo.
Il gesto di cui si è macchiato, comunque, è certamente da biasimare. Ma se l’hockey resta sempre uno degli sport sconsigliati agli smidollati è anche vero che una quota di un certo tipo di giocatori è meglio averla in casa piuttosto che concederla sempre agli avversari.
Il passato, non troppo remoto, è sempre rimasto lì. A testimoniare questa teoria.
Passiamo adesso alla “48 ore” che abbiamo praticamente trascorso sulle tribune del Palaonda.
L’ho vissuta in parte con Laura, l’altra metà del mio cielo, donna capace di condividere anche ogni mia passione legata allo sport. Come sarebbe in grado di fare, se fosse ancora in vita, anche mamma Gisella.
Sono state due serate, quelle in cui Klagenfurt e Graz si sono presentate a Bolzano, nelle quali la presenza di Laura ha solleticato la mia curiosità. E sono andato in cerca, con lo sguardo, di altre moltissime donne (anziane, di mezza età o giovanissime: non mi hanno fatto alcuna differenza).
La riflessione che ne ho tratto ha lo stesso peso specifico di un granello di sabbia poggiata sul piatto di una bilancia. Ma resta importante.
La differenza di genere, quella stessa che proprio i deficienti seriali prendono a pretesto nelle sottomissioni di cui si macchiano, si annulla totalmente davanti alle comuni passioni. Anzi.
Le donne possono appassionarsi allo sport con trasporto. Quanto o meglio di un uomo.
Anche di una semplice partita di hockey.
Lo faranno sempre con molta più classe. Ed eleganza.
Guardavo ad esempio, accanto a me, le mogli di molti amici accomodati
in tribuna, scandagliare con lo sguardo anche il più semplice battito di ciglia dei loro figlioli. Alle prese con giochi condivisi con loro coetanei. Oppure con un cellulare. Magari un po’ prematuro, se in mano ad un bambino.
Ma quella premura è la stessa che fu di Gisella. O Laura.
Perché è insito nella loro natura. Per cui, rispettiamole. Sempre.
L’hockey giocato, quello visto venerdì sera in Bolzano-Klagenfurt ha rispolverato in molti di noi considerazioni oramai ataviche. Fredde come le mani di una statua. Ma che vengono riproposte ogni qual volta, nella terza squadra in campo, si presenta al cospetto del popolo biancorosso il solito arbitro. Quello che ama ergersi da protagonista.
Innanzitutto vorremmo sapere perché, ogni anno, debba sempre essere garantita la sua presenza quando dalla parte opposta delle barricate vi sono sempre Salzburgo e Klagenfurt.
Chi vi scrive si è sempre esposto abbastanza chiaramente sulle questioni arbitrali.
È lecito e naturale che anche la terza squadra in campo possa commettere degli errori.
La buona fede rimane comunque la principale attenuante che un uomo ha il diritto di accampare.
Ma qui, signori, siamo oramai davanti ad un’evidenza che è impossibile trascurare.
I fatti: Bolzano e Klagenfurt hanno dato vita al match che ciascuno si sarebbe atteso.
Ogni avversario oramai scende sul ghiaccio bolzanino come se non ci fosse un domani.
Ed il KAC non è stato da meno.
In avvio vengono giustamente applauditi i reintegri di Enrico Miglioranzi e Mike Halmo.
Bolzano macina gioco e crea pericoli. Ma Florian Vorauer fa subito intendere alle anime in tribuna che dovranno palpitare a lungo. Il portiere dei carinziani si erge da protagonista della serata. In un altro applaudito duello tra portieri. Che, in questa circostanza, coinvolge in prima persona Gianluca Vallini.
Un errore di Cole Hults spiana la strada ad un incredulo Nick Petersen. La mira del canadese è perfetta. Disco all’incrocio e Klagenfurt avanti.
La dinamica del match premia gli austriaci. Ancora in rete con Van Ee in apertura di secondo periodo. Vallini però è lucido e presente. E conserva il distacco in termini accettabili con eccellenti parate.
Ci vuole la solita giocata sopraffina di uno dei tenori biancorossi, Tony Salinitri, per accendere definitivamente il match. Assist al bacio per Matt Bradley e rete dell’1-2.
Proprio dal numero 67 nasce l’iniziativa del gol del pareggio. Slap nel traffico, deviato in rete da Pascal Brunner. E subito dopo è proprio Mike Halmo a trafiggere Vorauer. I carinziani spendono con saggezza uno dei “video review” a loro disposizione. Il gol viene annullato per fuorigioco di un’inezia.
Il terzo periodo è un vero concentrato di emozioni. Il KAC trova ancora un vantaggio in powerplay con Fabian Hochegger. Il pugno di tifosi carinziani può liberare la propria gioia. Ma proprio sotto la loro tribuna, a 10’ dal termine, Tony Salinitri si affida ad un gesto tecnico che gli è oramai abituale. Tiro al volo fulmineo e preciso all’incrocio dei pali. E partita che torna nuovamente in bilico.
Attenzione ora.
Ultimi secondi di gioco. Bolzano è in powerplay. La scatola biancorossa prepara l’azione decisiva. Che viene finalizzata da Luca Frigo. È il gol del 4-3. A soli 7 secondi e 9 decimi dalla sirena finale. Il Palaonda è in piedi a spellarsi le mani. Ma il pancone KAC ordina una nuova review.
Sarebbe bello sapere cosa accade realmente in quelle circostanze nel gabbiotto dei cronometristi.
Anzi, non abbiamo alcun bisogno di saperlo.
Morale, i molteplici replay mettono in evidenza un colpo di spatola di Bradley sul blocker di Vorauer. Gli arbitri si attengono a quello. Mi domando come facciano a non vedere anche l’interferenza del difensore su Bradley. Motivo del danno cagionato al portiere.
Il Palaonda insorge. Mentre Nikolic si atteggia nella posa che ha il potere di irretire ulteriormente il pubblico bolzanino. Quella in cui poggia entrambe le mani sulle maniglie dell’amore. Come a voler dire: “E allora?”.
Sorvoliamo su considerazioni oramai stantie, come dicevamo prima.
L’overtime viene dominato dal Bolzano anche se è Daniel Obersteiner a gelare il sangue al Palaonda. Vallini ringrazia il palo alla sua destra. E Matt Bradley, ancora lui, punisce il KAC insaccando ancora una volta il rigore decisivo. Accompagnato dall’eloquente gesto che fa parte del repertorio arbitrale. Quello in cui il braccio indica il disco in rete. Segno inequivocabile della consapevolezza della situazione. Che anche i nuovi arrivati a Bolzano hanno già compreso.
La sera dopo, le scene che si possono desumere ricordano la brillante commedia: “Il Giorno della Marmotta”. In cui le situazioni si ripetono tutti i giorni, esattamente allo stesso modo.
C’è curiosità intorno al Bolzano. Atteso, chissà in quali condizioni, al difficile test con il Graz.
La risposta del ghiaccio è impietosa. I '99ers si portano subito in vantaggio con Marcus Vela.
Ma l’Armata Biancorossa riesce ancora una volta ad eludere qualsiasi ostacolo, qualsiasi critica e qualsiasi perplessità.
È primo in classifica. Dall’inizio della stagione. Ha un gruppo unito e coeso, come ogni “top team” che si rispetti. Ha grandi allenatori sul pancone ed altrettanti grandi giocatori sul ghiaccio.
Come insegna la più ovvia e banale delle strategie da tenere durante la stagione regolare, questa è la fase in cui è possibile sperimentare. Nella quale si possono giostrare uomini e schemi. Alla ricerca della Grande Bellezza. Quella che servirà quando le partite giocate a marzo verranno affrontate con tutt’altre prospettive.
Quindi spiace dover assistere settimanalmente allo sciame di giudizi inappropriati. Sollevati proprio da colui che invece dovrebbe sostenere la squadra. Ovvero il pubblico di casa.
Sappiate che il prezzo del biglietto potrebbe autorizzare le critiche rivolte in modo costruttivo. Non certamente quelle inappropriate e volgari che si possono leggere sulle solite chat ed i soliti social.
Fatevene una ragione, ragazzi. Date tempo al tempo. Una casa non viene costruita partendo dal tetto. Ma dalle fondamenta. Come stanno facendo tutte le squadre della ICE. Non solo il Bolzano.
Anche qui, non è stato il caso, ma i biancorossi hanno premuto sull’acceleratore immediatamente dopo aver subìto lo 0-1 di Vela. Ed ironia della sorte, non con uno bensì due brillanti powerplay finalizzati alla perfezione, hanno ribaltato il risultato con DiGia Balboa (come si sussurra venga appellato Chris DiGiacinto in spogliatoio...) e Brad McClure.
Tim Harnisch prova a pasticciare nel secondo periodo il clima di festa al Palaonda. Il Graz perviene al pareggio ma è costretto ad inseguire nuovamente quando, dopo appena 1 minuto dall’inizio dell’ultima frazione, Tony Salinitri si presenta in orario all’appuntamento con l’assist millimetrico di Matt Bradley.
Qui sale in cattedra, provvidenziale come un’assoluzione per un condannato a morte, l’aura onnipotente di Sam Harvey. Il portiere biancorosso ed il penalty killing orchestrato dai depositari della tattica che abbiamo sul pancone sono le carte vincenti della quinta vittoria consecutiva della Capolista.
Che non sarà impeccabile, come lamentano i puristi. Però intanto è là. In cima al mondo. A guardare tutti gli altri. Dall’alto al basso.
Così sia...